psicoanalista

Io sono uno psicanalista, e una volta andavo quasi fiero di questo nome; ma mi sono accorto che per non spaventare o allontanare le persone — prima che mi conoscano — sarebbe meglio dire soltanto psicologo o psicoterapeuta. Ci sono molti pregiudizi sulla psicanalisi, in parte giustificati, per cui lo scopo di questo intervento oggi è anche chiarirvi in che cosa consiste il mio lavoro.

Io soccorro chi sta male, cerco di alleviare il dolore, ovviamente lavorando anche sulla radice del dolore; meglio: su quella che PRESUMO sia la radice del dolore. Faccio esattamente quello che fa la collega Mezzera. Può sembrare banale, ma recentemente parlavo con un’anziana collega freudiana — io sono junghiano, per quel che può significare — e mi ha colpito una sua frase: non vedo più persone che stanno male, mi ha detto. Mi sono domandato che genere di pazienti abbia. Tutti i miei pazienti sono venuti da me perché soffrivano, perché avevano qualcosa di ingestibile/incomprensibile nella loro esistenza, acuto o cronico che fosse. Dunque quale dolore. Beh, depressione, ansia, panico, alimentazione; oppure relazioni che non vanno bene. Le difficoltà più ordinarie della nostra esistenza. Ho riguardato le mie cartelle cliniche. Nessuno è mai venuto da me per fare un percorso esistenziale, anche se tutti, alla fine, SE e quando hanno risolto il problema per cui erano venuti, lo hanno fatto anche comprendendo meglio se stessi, cioè allargando lo sguardo oltre il problema concreto.

Come lavoro con queste sofferenze. La cornice diciamo teorica in cui inquadro il dolore dice anche il modo con cui riesco a soccorrerlo. Nella tradizione cristiana il dolore sta vicino alla colpa e alla punizione. Per cui lo si deve amputare, come si deve eliminare il male, o al massimo lo si ricerca, flagellandosi per espiare una colpa. Sottilmente questo modo di concepire il dolore è rimasto anche in approcci che non sono cristiani, si è secolarizzato: ho amici macrobiotici che senza rendersene conto finiscono per condannare il dolore — cioè la malattia del corpo — non molto diversamente da certi preti. Ovvero se stai male te lo meriti, perché mangi male e non conduci una vita sana; proprio come le disgrazie di una persona sono in relazione con i suoi peccati. In altre parole il dolore viene BIASIMATO.

Per quanto mi riguarda, l’orizzonte di riferimento è il rispetto INCONDIZIONATO per il dolore, cioè la totale assenza di giudizio nei sui confronti. Questo anche in termini concreti: a una persona depressa non direi mai guarda quante cose belle ci sono nella vita, tirati su, non c’è ragione di star male. Non soltanto perché non funziona, ma perché quello stato d’animo ha bisogno prima di tutto di essere riconosciuto nei suoi diritti. Ovvero io credo che ogni dolore abbia un senso; ne consegue che il dolore, per essere curato, deve essere prima di tutto CAPITO. Deve sentirsi capito. Anzi in alcuni casi esiste un problema di anestesia, e quindi la salute passa attraverso il recupero della capacità di soffrire, come dice Winnicott. Per esempio nei traumi — violenze, abusi sessuali — c’è bisogno di soffrire ciò che non si è potuto soffrire sul momento, deve essere rivissuto il dolore che la coscienza non ha potuto sostenere e ha dissociato e sepolto, nel corpo stesso. In effetti non è stato dissociato solo il dolore, ma l’intera capacità si sentire.

È bene sottolineare che la mia non è un’esaltazione del dolore (la flagellazione appunto), perché lo scopo è STARE MEGLIO. Ma certamente si tratta di uno stare meglio complessivo e complesso, non chirurgico; si tratta infatti di persone, non di rubinetti, interruttori, serrature, dove c’è soltanto da sostituire un pezzo difettoso. In questo equilibrio complessivo rientra anche un aspetto o fase di dolore. Per esempio qualche anno fa io ho preso un’influenza fortissima, sono stato davvero male, ho avuto la febbre per quindici giorni e dolori acuti alla testa e alla pancia. Non passava mai, mi ha fermato completamente. Poi sono rimasto debole quasi due mesi, mi sembra. Ma retrospettivamente questa influenza ha cambiato qualcosa nella mia vita, in meglio. È stata effettivamente un’esperienza, ho sentito che ero cambiato. E in parte questo mi è successo anche l’anno scorso, quando le mie figlie mi hanno attaccato la varicella. In entrambi i casi il mio medico, la Simona, come immaginerete non mi ha ELIMINATO la malattia o il dolore, anche se certo mi ha alleviato le sofferenze. Direi che come al solito Simona ha AIUTATO la malattia.

Nel mio rispetto del dolore rientra il fatto che rispetto pienamente il punto di vista del cliente, che il più delle volte arriva chiedendomi di togliergli un sintomo, e questo come minimo faccio — quando ci riesco naturalmente. Non considero con superiorità questa richiesta elementare, in base a una presunta scienza psicanalitica più elevata. Ma quanto al sintomo, lo curo nel modo in cui lo so fare, cioè allargando lo sguardo. Accade così che mentre il sintomo effettivamente se ne va lo sguardo si allarga. Il sintomo se ne va proprio perché non lo aggredisco. E riguardo al sintomo parlo di tempi piuttosto brevi, diciamo 4/6 mesi mediamente, per il disagio acuto e circoscritto, per esempio l’attacco di panico. Ripeto: non sempre va bene, non sono onnipotente. Ma male male devo dire raramente, forse mai, nel senso che non mi è mai capitato di tenere qualcuno anni a bagnomaria. Magari non ci si prende, e dunque molto presto, quando si vede che non tira aria, consensualmente ci si saluta. Devo dire che varie persone si sono autoescluse presto, evitandosi così anni e denaro sprecati, e il senso di avvilimento per una lunga terapia priva di senso. Dunque se gira o se non gira si capisce presto, e se gira i tempi non sono lunghi, a meno che uno non ci provi gusto e la relazione cresca e si approfondisca — come ogni altra relazione umana. Ma anche in questo caso, comunque, si continua soltanto perché si vede un senso tangibile, reciproco, e sostanzioso dell’andare avanti. Questa è una pura statistica retrospettiva sui miei casi clinici.

E il corpo in tutto questo? Ho notato che anche se io la prendo dal lato psichico/relazionale, c’è chi dimagrisce, chi dorme meglio, chi digerisce meglio. Direi che migliora la fisiologia di base, soprattutto a distanza di tempo (dopo un anno e poi scalando propongo incontri gratuiti agli ex pazienti, se vogliono, per vedere un po’ come va. Il più delle volte è utile a entrambi). Ma questi sono come dire benefici collaterali; il punto è che qualsiasi dolore è GIÀ e SEMPRE anche corpo. Come è noto nella depressione il sistema ipotalamo-ipofisi-surrene è alterato; ma sarebbe un errore epistemologico e scientifico, alla luce delle conoscenze attuali, sostenere che quest’alterazione è la causa della depressione, come d’altra parte lo sarebbe sostenere che è l’effetto. L’alterazione di quell’equilibrio ormonale è un aspetto corporeo di quel fenomeno complessivo/personale che è la condizione depressiva. La depressione è un fenomeno unitario, come è una l’unione della mente e del corpo.

Ogni dolore è anche corpo perché il dolore è uno stato emozionale, affettivo (la depressione è un’esasperazione della tristezza, una volta si chiamava melanconia), e l’affetto è la condizione psicofisica per eccellenza: io non posso separare la paura dal battito cardiaco, dalla sudorazione, dalla pulsazione del sangue, dal respiro. Voglio dire che non la posso separare nemmeno nella mia percezione, nel mio vissuto della paura. Avere paura significa anche percepire tutte queste condizioni corporee. Recentemente c’è stata una ridefinizione del concetto di patologia e conseguentemente di terapia, in psicanalisi ma anche in ambito psicoterapeutico generale. Oggi definiamo patologia, cioè sofferenza eccessiva, la DISREGOLAZIONE AFFETTIVA, che è il minimo comune denominatore di tutte le categorie in cui finora è stata settorializzata la sofferenza psichica (il DSM, per intenderci). Disregolazione affettiva significa emozioni fuori controllo, travolgenti, a livello costante e cronico, come la depressione, o a livello acuto episodico, come l’attacco di panico. In termini psichici significa che l’io non riesce ad avere un rapporto equilibrato con l’inconscio, in termini cerebrali significa che sono compromessi i rapporti fra la corteccia e il cervello profondo (sistema limbico e tronco encefalico), in particolare nell’emisfero destro. Ciò che arriva dall’inconscio/cervello profondo non assume la forma di un flusso in qualche modo riconoscibile e gestibile; piuttosto non riesce proprio ad avere una qualche forma, e si esperisce come una sorta di TSUNAMI.

In relazione a questo modo di concepire la patologia la psicanalisi attuale ha spostato il lavoro sul versante affettivo più che su quello cognitivo, ovvero ha spostato — o riequilibrato — l’asse di attenzione in direzione del corpo. A dire il vero Freud ha sempre sostenuto che l’essenza dell’inconscio fosse di natura psicosomatica a valenza affettiva, e per questa dimensione usava appunto il termine PULSIONE. In conseguenza di ciò, riteneva che il cuore della terapia non fosse la ricostruzione del passato, ma il transfert, ovvero la relazione presente con i suoi pazienti. Riteneva che l’amore di transfert, così lo chiamava, fosse il fattore decisivo della cura. Il che non significa, ovviamente, approfittarsi sessualmente dei pazienti, che è una cosa estremamente grave. Significa che è terapeutica una relazione affettiva di un certo tipo. Questo è particolarmente vero oggi, nel senso che oggi usiamo quest’energia curativa consapevolmente. Ma al di là dell’uso tecnico e circostanziato, si tratta comunque di emozioni entro una relazione fra due persone. In altri termini è enormemente aumentato l’aspetto collaborativo e relazionale dell’analisi.

Dal momento che uno stato d’animo ha vari livelli (emisfero sinistro/linguaggio, emisfero destro/immaginazione, sistema limbico/emozione e motivazione, tronco encefalico/regolazione delle funzioni autonome-sistemi dell’attivazione e del dolore) la sua cura stessa coinvolge vari livelli. Così il nostro livello di attenzione, come analisti, è ormai complessivo, e predisposto a notare i fenomeni che emergono dalla globalità della persona. In particolare, io sono molto attento ai segnali del corpo, anche del mio corpo, in relazione al lavoro con un paziente. Perché questi segnali dicono sempre qualcosa che riguarda la coppia: come testimonia la scoperta dei neuroni specchio, gli stati psicofisici umani sono spesso (sempre?) relazionali, non individuali. Faccio un esempio. Qualche tempo fa stavo lavorando con un ragazzo che aveva sofferto di problemi dell’alimentazione, e mentre lui stava parlando ho sentito improvvisamente crescere un senso di nausea e disgusto nello stomaco. Come sempre mi sono chiesto: e questo che è, che significa? Naturalmente sul momento non ne avevo la più pallida idea, perché il paziente stava parlando di cose che non avevano niente a che fare con quel disagio. Eppure dopo qualche minuto il discorso si è spostato sui problemi del cibo. Questo accade spesso: il mio corpo segnala in anticipo il problema che mi verrà comunicato a parole dalla persona. E non si tratta soltanto di un segnale: ciò che ho sentito rimarrà un elemento importante della comprensione del problema o della situazione.

Naturalmente tutto ciò rimane anche un CAPIRE con la mente. Ma il punto è che non è soltanto un capire mentale, piuttosto è un capire in senso ampio, dove esiste anche la collaborazione della mente, dell’intelletto, ma non soltanto. In altre parole è un vivere, sperimentare, sentire assieme; molto più di quanto si credesse, che so, 30 anni fa, perlomeno nell’ambito dell’ortodossia psicanalitica. Capire cioè non solo per pensieri (emisfero sinistro), ma anche per immagini (emisfero destro), emozioni (sistema limbico), e stati psicofisici di base (tronco). Le diagnosi migliori, per esempio, sono quelle che le persone costruiscono dialogicamente insieme a me — ma alla fin fine le formulano loro, e sono sempre metafore, non concetti. Sono immancabilmente migliori delle mie. Inoltre sono uniche, non si adatterebbero a nessun altro. Uniche, intendo, nella ricchezza di quel momento. I pazienti elaborano via via una serie di metafore diagnostiche su se stessi, che costituiscono i segnavia della cura. Perfino nei concetti c’è il contributo del corpo (come pensava Piaget), e probabilmente in ogni singola cellula c’è il contributo della mente. Perché, come sosteneva Spinoza, il corpo e la mente sono due aspetti della medesima sostanza, la persona.

Dunque ecco quello che io faccio e so fare; ma non direi mai che è VERO. Direi piuttosto che è il lato da cui la prendo, e da cui mi viene meglio prenderla. All’inizio vi ho detto della cornice, adesso concludo sull’obiettivo, che è una certa idea di essere umano. Non è la perfezione. La perfezione forse è un desiderio, ma non è realistica, e non so nemmeno se sia davvero desiderabile. Realistico è un equilibrio decente, cioè vitale. Migliore di quello medio, e migliore di quello iniziale da cui parte il paziente. Ma in fondo il mio senso delle cose resta quello della parabola Zen, che certo conoscerete: un uomo è appeso su un abisso, con due tigri che lo minacciano, una sopra di lui e una che lo attende giù in basso. Intanto due topi, uno bianco e uno nero, rosicchiano l’arbusto a cui è appeso. In questa situazione lui scorge una fragola e se la mangia, ed è dolcissima.

La mancanza di perfezione riguarda anche me, e cioè il fatto che nel mio lavoro capisco molto meno di quanto si creda. Sono più un artigiano che un teorico. Il motore funziona male e io ci metto le mani per ripararlo, e fra l’altro spesso mi sporco e mi ferisco. In principio molti pazienti sono sconcertati dallo scoprire che so meno di quanto credono — sconcertati dalla mia posizione socratica di NON SAPERE, che non è rassicurante. È difficile accettare che le molte teorie che conosco e tutti i libri che ho letto e i tantissimi anni di preparazione servono più o meno come pinze, cacciaviti, vanghe o zappe. Poi però prendono gusto alla collaborazione, E IO CON LORO. Una parte del lavoro, alla fine, è anche divertente e gratificante per entrambi.

Concludo dicendo che l’apertura al corpo non significa una rinuncia alla mente. L’essere umano è fatto anche per capire, altrimenti non avrebbe una corteccia e un emisfero sinistro. Ovvero l’essere umano non può essere curato a prescindere dal senso che dà all’esistenza — soprattutto quando il suo dolore riguarda il senso della sua esistenza, il senso che essa non sembra più avere.

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