Regia di J. Campion, USA 1992.

Lezioni di piano

 

“La voce che sentite non è la mia voce: è la voce del mio pensiero.
Non parlo da quando avevo sei anni...
Nessuno sa perché, nemmeno io. Mio padre dice che ho un talento oscuro e che il giorno in cui deciderò di smettere di respirare sarà l’ultimo”.

 

Con queste parole ha inizio il film, con una voce fuori campo che accompagna costantemente la narrazione, la vicenda  di una donna silente che parla con i segni del corpo, lo sguardo, le mani, i gesti.
In questa conversazione interiore, Ada si descrive come una donna che pensa, ma non dà voce al suo pensiero, per un motivo sconosciuto anche a se stessa, una donna dotata di forte volontà e determinazione, che lascia supporre come la causa del suo mutismo sia da interpretare più come il frutto di una scelta, anche se inconsapevole, piuttosto che come il sintomo di un disturbo fisiologico. Dunque un motivo oscuro, che deve essere interpretato attraverso il non detto, attraverso il linguaggio del corpo. Osserviamo allora i gesti con cui si presenta, si esprime e si racconta…
Nella prima inquadratura Ada, si copre gli occhi con le mani,  poi, pian piano, le dita si scostano, si aprono, per vedere e/o essere vista. Le mani costituiscono la nostra possibilità di toccare, sentire, entrare in con-tatto con il mondo, ma anche di fare, di agire, intervenendo su questo, dando forma, plasmando la “materia”, e quindi rappresentano il nostro duplice modo di stabilire una relazione con il mondo, quella con il “sentire” e quella con il “fare”. Con lo sguardo “scopriamo” il mondo esterno a noi, possedendolo attraverso la visione, ma rappresenta anche il passaggio obbligato da una visione “interiore”, soggettiva, delle cose ad una più realistica.
E’ dunque della relazione con il mondo, della sua impotenza ad agire, della sua impossibilità ad essere vista, riconosciuta che Ada in questo incipit, con i suoi gesti, ci sta parlando?
Così continua: Oggi mi ha data in moglie ad un uomo che nemmeno conosco. Presto mia figlia ed io lo raggiungeremo nel suo paese... La cosa strana è che io non penso  a me stessa come una creatura silenziosa. E questo grazie al mio pianoforte.
Il pianoforte: insieme atto creativo-comunicativo e sintomo nevrotico.
Ada, come tutte le donne dell’epoca, è soggetta all’autorità paterna che dispone di lei come se fosse un oggetto di sua proprietà, ceduto, successivamente, ad un altro uomo, il marito, che ne assume a sua volta il controllo e la responsabilità. L’esercizio di un tale potere priva la donna della sua capacità di esprimersi e nega la sua esistenza come soggetto di diritto. Il suo ostinato mutismo potrebbe allora essere interpretato come una inconscia protesta verso un mondo che, ignorando il suo diritto ad esprimersi, non la riconosce come persona. Obbligata ad assumere un ruolo prestabilito che ignora la sua identità, Ada sarebbe costretta a vivere usando un linguaggio convenzionale, i cui termini, come in una recita, risultano scontati e ripetitivi. Interrotta ogni comunicazione con l’esterno, Ada si rifugia, sin da bambina, nella dimensione interiore, trovando nel pianoforte il suo personale modo di comunicare, quello che le consente di pensarsi e viversi come “creatura non muta”.
In questo famoso inizio del film emerge il tema profondo della nuova soggettività femminile, una condizione che richiede a Ada, come a molte altre, di affrontare un lungo e faticoso viaggio, lasciando il vecchio mondo e la casa paterna per approdare ad una nuova vita, agli “antipodi” della civiltà. Un cammino che necessariamente comporta l’abbandono di una visione idealistica e solitaria, chiusa al mondo quale è quella da lei vissuta con il pianoforte, e chiede invece di “mettere i piedi per terra” agendo e lottando per conquistare ciò che ci spetta: il diritto ad essere e manifestare noi stessi. Così Ada, a terra, si guarda, in maniera significativa, i piedi e inizia il suo cammino; quel cammino che, intrapreso per volere altrui, diventerà un viaggio nell’inesplorato, nell’intrigata foresta del suo essere alla scoperta delle parti profonde di sé.
“Il primo passo” che Ada è costretta a compiere è quello di chiedere aiuto; se vuole recuperare la possibilità di comunicare (il pianoforte prima, la parola dopo), è necessario che si muova, che esca dal suo mondo e si apra alla relazione con l’altro. Così ha inizio il rapporto con “il selvaggio”. George, che costituisce il tramite tra le due culture, quella inglese “civilizzata” e quella Maori “primitiva” si pone, inizialmente, in una posizione “passiva”, di ascolto e osservazione attenta. E’ questo atteggiamento di apertura che rende possibile la comunicazione profonda, quella che, al di là degli schemi e dei linguaggi convenzionali, consente la scoperta dell’altro. Cogliendo la ricchezza interiore di questa donna, vuole “scoprire” cosa si cela dentro di lei, e può farlo solo attraverso il mezzo con il quale ella si esprime: il pianoforte. Solo entrando in possesso di quell’oggetto egli può entrare in contatto con l’anima di quella donna. Tasto dopo tasto, costringerà la donna a spogliarsi, liberandosi di quei “vestiti” che come una gabbia imprigionano il suo corpo e la sua sessualità, così come i ruoli imposti dalla società convenzionale imprigionano la sua anima. Dopo che l’ultimo abito è caduto, Ada, rientrata in possesso delle sue potenzialità espressive, è libera e può scegliere.
E’ opportuno soffermarci per riprendere il discorso iniziale sulle mani e sullo sguardo, poiché il guardare e il toccare come modalità di entrare in relazione con la vita si configurano come le azioni attraverso le quali si realizza e manifesta il cambiamento profondo della protagonista. Attraverso lo sguardo di George, Ada si scopre come “oggetto di desiderio”. Dunque ha un potere: quello di soddisfare o non soddisfare il desiderio dell’uomo esponendosi alla sua vista. Ed è sulla base di questo “valore oggettuale” riconosciuto alla sua persona, che Ada scopre di avere un potere, quello che le permette di effettuare uno scambio. Ma il piacere di George non è di tipo voyeuristico: egli non gode della distanza dalla donna, la ricerca della sua nudità è la ricerca di un contatto più profondo, intimo. Alla richiesta del “vedere” subentra infatti quella del “toccare”, per arrivare, infine all’unione completa dei corpi, che culmina nella dichiarazione di un sentimento amoroso. E la donna percependosi come oggetto desiderato, quindi amato, scopre l’amore per se stessa e dunque il suo “Eros”.

La storia di Ada non si conclude con la riconquista del pianoforte, ma con l’abbandono di questo nelle profondità del mare. Attraverso una serie di passi in cui agisce la libertà percepita, passando da un tentativo di contatto intimo con il marito ad una relazione amorosa che da clandestina renderà manifesta, complice la figlia che rappresenta la sua stessa voce, Ada, intraprenderà il viaggio di ritorno. Un viaggio verso “la civiltà”, questa volta intesa non come totale repressione degli istinti e negazione della libertà individuale, ma come una “civile” convivenza tra le proprie esigenze vitali recuperate e le leggi imposte dalla vita sociale. In questa nuova dimensione, il pianoforte diventa uno strumento ormai inutile, un vincolo, un legame (corda) con un passato che Ada sente ormai risolto e che quindi occorre abbandonare definitivamente: la sua decisione di buttarlo a mare si dimostra ferma e irrevocabile. Il pianoforte precipita in fondo al mare, ma la nevrosi è là, il sintomo ci consola e ci libera dalle responsabilità del decidere e dell’essere. La donna spaventata dalla propria azione di rivendicazione, mette il piede nel cappio della sua nevrosi. La tentazione di lasciarsi nuovamente catturare da quel mondo indifferenziato, fatto di silenzio, di vita non manifesta che ci ricorda la vita chiusa e indifferenziata dell’utero materno, è così forte che Ada lega il suo destino al pianoforte per scomparire con esso nelle profondità abissali delle acque marine. La morte è sentita come una grande occasione ! Ma la vita è più forte: - “Che sorpresa, la mia volontà ha scelto di vivere”. Liberandosi definitivamente da quei legami che la rendevano prigioniera del passato e rischiavano di farla morire come persona, Ada emerge dalle acque dell’oceano con un lungo respiro e con questa nuova consapevolezza. La scelta di ricominciare a vivere coincide con l’imparare nuovamente a parlare, riaprendo il canale comunicativo con la realtà.  È la voce, “il Verbo” l’espressione della nostra “Incarnazione”. Ma all’acquisizione del linguaggio verbale si accompagna anche un nuovo modo di guardare e la protagonista ce lo indica nella scena in cui compare con un fazzoletto nero che le ricopre il volto, mentre, come una bambina, cammina a tentoni. Il fazzoletto, che le viene tolto da George, l’uomo che ama e con il quale affronterà le incognite di un amore ricambiato e quotidiano, in una casa dai colori chiari, luminosi, dove il pianoforte è diventato, grazie alla “ricostruzione” del dito amputato, un progetto di lavoro concreto, e non più strumento di un’espressione romantica e solitaria, esprime questa volontà di iniziare una nuova vita guardando con occhi nuovi la realtà; una realtà che adesso Ada ha imparato a guardare senza più coprirsi gli occhi con le dita.
Ada, dunque, sceglie la vita, ma le parole con cui conclude la sua storia ci parlano di quella tentazione che la notte, quando i legami con il mondo si allentano e allo stato cosciente dell’Io subentra quello della nostra parte più inconscia, meno differenziata, torna a manifestarsi.
La pulsione di morte, come impulso a ristabilire la perduta unità narcisistico-materna, è una forza potente che, presente in ognuno di noi, genera questo desiderio inconsapevole di essere riassorbiti dal grembo materno, e con esso scomparire nell’indifferenziato, laddove non esiste la volontà ma l’abbandono. L’immagine del suo piano allora, come un sogno, si ripresenta, per esprimere quel desiderio di silenzio, di sonno, di quiete che è la vita prima della nascita e dopo la morte:
“ Di notte penso al mio pianoforte nel profondo dell’oceano e a volte penso anche a me sospesa sopra di esso.
Laggiù tutto è così fermo, silenzioso, che mi concilia il sonno E’ una strana ninna-nanna, ma è mia. C’è un grande silenzio dove non c’è mai stato suono, c’e un grande silenzio, dove suono non può esserci, nella fredda tomba del profondo oceano”.

 

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