La Metafisica di Aristotele comincia con questa affermazione: «tutti gli uomini per natura tendono al sapere». Aristotele non si riferisce soltanto al sapere più elevato — la teoria, la speculazione — ma a quell’attività della mente che agisce fin dalle impressioni sensibili, filtrando e organizzando dei dati che altrimenti sarebbero un succedersi sovrabbondante e disconnesso. Se l’esperienza si fonda sui sensi, dunque sul corpo, senza i «ragionamenti» essa non diviene davvero eugenia savino 2esperienza, perché non viene assimilata. Senza riflessione gli esseri animati «poco partecipano dell’esperienza». Il dato dei sensi esiste, ma l’essere umano lo fa proprio soltanto attraverso la funzione concettuale. Il fatto che oggi la nozione di sapere si sia allargata a facoltà tradizionalmente meno considerate, come l’immaginazione o pensiero per immagini, non cambia il punto fondamentale: «fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza» (Inferno, XXVI, 119-20).
Qui Dante con «brutalità» indica precisamente l’assenza di parola e concetto, che sono aggregatori di percezioni e vettori di conoscenza. Si può certamente vivere in modo irriflesso, come certi animali in cui «dalla sensazione non nasce la memoria», o altri che pur capaci di ricordi non si spingono in elaborazioni complesse del vissuto; «il genere umano vive, invece, anche d’arte e di ragionamenti». Secondo Aristotele l’uomo è animale, ma animale razionale. La nostra interazione con l’ambiente non è semplicemente fisica, ma psicofisica. Dunque «razionale» significa che la funzione mentale pervade il rapporto dell’essere umano con la realtà (e con se stesso).
La storia della filosofia e della cultura   occidentale ha esasperato il valore dell’intelletto e della mente a detrimento dei sensi e del corpo, e quest’esasperazione è già presente in Aristotele.
Perfino il materialista Democrito riconosce la preminenza della mente sul corpo: «è conveniente che gli uomini facciano conto dell’anima più che del corpo: perché la perfezione dell’anima fa scomparire la deformità del fisico, mentre la forza del corpo scompagnata dal raziocinio non rende affatto migliore l’anima» (DK 68 B 187).
In effetti tutti i filosofi greci, e in particolare Platone, hanno dato un contributo decisivo al progetto di un’umanità dove la mente domina il corpo e la ragione domina le passioni; anzi in molte delle sue opere Platone scrive che l’anima conosce perfettamente e vive in completa serenità soltanto quando si separa dal corpo. Per questo Socrate, alla fine del Fedone, muore con serenità filosofica, senza esitazione: agli amici in lacrime spiega per l’ennesima volta che si troverà «libero e sciolto da questi luoghi terreni come da carceri, in alto nella pura abitazione, senza legami corporei», «me ne andrò via lontano da qui, beato tra i beati».
La nostra civiltà ha gradualmente messo in luce questa unilateralità razionalista e mentalista, e l’inaridimento che comporta nell’esistenza dell’essere umano. La stessa scienza naturale rappresenta il riconoscimento dell’esperienza, che era stata sottovalutata se non negata dalla speculazione.
Filosofi come Schopenhauer e Nietzsche hanno indicato la potenza della corrente vitale irrazionale, radicata nel corpo come dimensione che la mente non può comprendere da una posizione di «purezza».
Anche Freud ha contribuito, e in modo decisivo, a riabilitare la pulsionalità radicata nel corpo. Freud si è mosso verso il corpo in quanto ha messo al centro della sua indagine la vita affettiva; infatti l’affetto o emozione è uno stato in cui non è possibile separare la mente dal corpo. Freud ha riscoperto ciò che è «in basso» rispetto alla ragione e alla morale: la libido, sinonimo di desiderio. Questo regno infero non è alieno alla mente — per esempio la mente gli è più vicina quando funziona secondo immagini, piuttosto che secondo concetti. La mente può concepire il corpo secondo le proprie modalità, incluse quelle razionali. Ma a nessun livello la mente lo afferra del tutto, spiegandolo nei propri termini senza residui.
Al contrario Freud ha sostenuto che la mente (l’Io) può trovare un compromesso con ciò che si trova in basso, e chiamava  questo compromesso «comune infelicità», per distinguerlo dalla infelicità devastante della patologia.
Jung era più ottimista sulla «saggezza» dell’irrazionale, anche se questo non si adatta alle leggi della logica, perché è ambiguo, contraddittorio, oscuro. In effetti spesso proviamo emozioni e stati corporei che dal punto di vista della coscienza «non dovremmo» provare. Insomma la mente e il corpo sono per così dire una coppia, e come ogni coppia la loro relazione può essere più o meno soddisfacente, ma mai perfetta. Altrimenti non sarebbero due realtà, ma una sola e identica.
Tutta la vita Freud è stato attaccato aspramente dalla società europea e mondiale per aver aperto al «basso».
Malgrado le sue ambizioni di distacco scientifico però, che usava anche per difendersi da quegli attacchi, era un terapeuta   umano, caloroso, poco «neutrale». Poi parte della psicoanalisi si è irrigidita in una dimensione intellettualistica: molti analisti hanno praticato un’analisi anaffettiva (cosa che ho constatato più e più volte per esperienza diretta). Dall’altra parte ho l’impressione che vari indirizzi terapeutici abbiano esasperato il ruolo del corpo con la medesima unilateralità con cui è stato privilegiato il valore della mente. In ambito psicoanalitico penso a sviluppi del pensiero di Reich e Lowen. Entrambi gli estremi a mio parere sono forme di fuga — dall’interezza dell’essere umano, ma innanzitutto dalla sofferenza.
Un approccio terapeutico non può essere ideologico, e quando si presenta come superiore agli altri smette di essere una cura e diviene una religione fanatica.
Un approccio terapeutico che si rivolge alla persona e non soltanto al sintomo non può eludere l’aspetto emotivo. L’emozione è l’anello di congiunzione fra il corpo e la mente, lo stato psicofisico per eccellenza. L’emozione può essere avvicinata dal lato psichico e da quello fisico, ma in nessun modo soltanto da uno dei due.
Come analista arrivo all’emozione partendo dalla psiche, perché questo so fare e probabilmente sono portato a fare, ma è il mio talento e il mio limite. Per cui sono sempre più attento agli aspetti corporei delle emozioni nei pazienti e in me stesso; e non ho mai lavorato solo con il pensiero e le parole, ma anche con le emozioni, che sono il cuore della terapia. Una psicoterapia che escluda l’aspetto affettivo e relazionale-affettivo è scarsamente efficace; ma questo oggi è un punto di vista scontato, almeno in linea teorica. L’elemento affettivo è l’aspetto centrale — e intendo anche l’affetto, il calore, il sentimento che scorre vicendevolmente fra terapeuta e paziente. Certo come in ogni relazione umana la corrente è a volte di segno positivo a volte negativo: per esempio la rabbia ha un ruolo importante.
La situazione vede contrapporsi i fondamentalisti della mente e i fondamentalisti del corpo.
Entrambi fuggono da qualcosa, nel senso che indicano il nemico o il male, e se ne tengono lontani.
In effetti entrambi fuggono dal dolore e dalla paura tramite la rassicurazione di un’ideologia. Il problema è che si tratta di terapeuti, non di sacerdoti o soldati. Per cui in questa fuga viene trascurato il dolore dei pazienti.
Esistono persone che possono farsi aiutare soltanto seguendo una religione, aperta o mascherata che sia; nel rapporto di dipendenza da un’entità superiore, come il Maestro o il Metodo Perfetto. Ovvero persone che proprio non ce la fanno a mettersi in contatto con il proprio dolore — perché esso è troppo intenso. Ma se la natura umana è mente e corpo ogni approccio unilaterale ignora il dolore dell’essere senza corpo, o il dolore dell’essere senza mente: un dolore che molte persone invece possono affrontare.
Il dolore della persona tutta mente, che non tiene conto dei messaggi del corpo, non è più intenso del dolore della persona travolta dagli stati affettivo-corporei perché non ha una mente dove collocarli. Si ignora la realizzazione del corpo allo stesso modo in cui si ignora la realizzazione dello spirito. La sofferenza di non poter nuotare, mangiare, dormire come si desidererebbe non è peggiore di quella di non poter pensare, scrivere, dipingere.
L’essere umano è mente e corpo, il suo equilibrio riguarda la salute di entrambi, e si ottiene con la collaborazione di entrambi. È artificioso e dannoso ritenere che la mente debba prevalere sul corpo, o che il corpo debba prevalere sulla mente.
Credo dunque che le esasperazioni siano sostanzialmente   ideologiche, come avrebbe detto Marx, perché sono disumane, cioè non rispettano la natura molteplice dell’essere umano. In fondo entrambi gli estremismi sono accomunati dal saltare a piè pari le emozioni, in particolare le emozioni dolorose.
Il fatto che la psicoanalisi attuale offra terapie più brevi, più  affettive, e più relazionali della psicoanalisi di una volta (consiglio O. Renik, Psicoanalisi pratica per terapeuti e pazienti, 2007) non significa che abbia abbandonato il valore della comprensione: le emozioni si esprimono anche in parole e pensieri; e se non lo fanno sono emozioni deprivate di un canale espressivo fondamentale.
Significa piuttosto che lavorando sul pensiero, sulle immagini, e sulle emozioni, e considerando costantemente lo stato corporeo-affettivo mio e del paziente come base delle nostre interpretazioni, posso inviare il paziente a un collega che lavora partendo dal corpo perché l’intervento coordinato è a vantaggio di chi sta male, e il soccorso a chi sta male è il senso fondamentale di quello che facciamo.
Dunque adattiamo le nostre teorie e le nostre pratiche a chi sta male, e non chi sta male alle nostre teorie.
Come scrive Jung riguardo il terapeuta, il paziente «è andato da lui per essere curato, non per dargli modo di verificare una teoria» (Questioni fondamentali di psicoterapia, 1951).
Nel mondo c’è una quantità impressionante di dolore. Nel secolo appena trascorso i milioni di morti per guerre, lager, gulag, carestie artificiali, genocidi — i morti che l’umanità e non la natura ha causato a se stessa — non hanno paragone con alcuna epoca nella storia, anche la più «barbara».
E l’esistenza quotidiana stessa è faticosa: la vita «non quadra». In una forma o nell’altra chiunque incontra il lato terribile della vita.
I filosofi — l’altra categoria cui appartengo — pur con il loro elitarismo hanno sperato di mettere ordine in questo disastro. Non ci sono riusciti, evidentemente, e questo ci riporta alla constatazione che come esseri umani siamo nella stessa barca in mezzo alle onde. Farsi la guerra ideologica è farsi la guerra fra disgraziati, e ricorda le guerre di religione. Serve a creare proseliti e a illudersi che il disastro non sia reale. Terapeuti, educatori, genitori sono alleati nel guadagnare terreno al dolore inutile, alla malattia e alla morte. Ciascuno secondo il proprio indirizzo, che corrisponde al proprio talento.
La diversità degli approcci non è un problema, ma una risorsa; il problema nasce quando un indirizzo si ritiene superiore agli altri ed è convinto di essere la Verità, la ricetta magica, la vera religione.

Adriano Bugliani è filosofo e psicoanalista, e opera a Firenze

L'immagine è di Eugenia Savino

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