Senegal ago 2010 263Intervista a Piero Ferrucci, psicoterapeuta, formatore.

Lo ha incontrato Rita Vitrano

Lei è uno psicoterapeuta, e già da qualche anno si dedica anche alla formazione nel campo del counseling, crede in questa professione. Cosa apprezza del counseling?
Credo molto nelle possibilità del counseling. Lo stesso Assagioli, caposcuola del nostro modello psicos-intetico, credeva nella possibilità di vari tipi di intervento con diverse tipologie di persone.
Accanto alla psicoterapia possono coesistere altri tipi di interazione.
Cosa ci trovo io di buono nel counseling? Naturalmente il dialogo, che è scambio fra due persone: uno scambio che usando determinati accorgimenti può produrre un’alchimia benefica a entrambi, così che  il cliente esca dall’incontro con le idee più chiare, con maggiore serenità, avendo una maggiore comprensione della propria vita e coscienza dei suoi scopi.
Nella psicosintesi ab-biamo molte tecniche, con i vantaggi e anche gli svantaggi che questo comporta, perché spesso le tecniche non sono usate come dovrebbero - per aiutare noi stessi e gli altri - ma diventano dei gadget. Il pericolo è che allontanino una persona dall’altra. Soprattutto nel coun-seling noi insistiamo sul dialogo, sul saper stare con la persona, ed essere capaci di ascoltare, e poi anche di poterle parlare con un atteggiamento di rispetto e accettazione. Il dialogo è l’asse centrale del counseling. Si possono fare via via gli interventi opportuni, ora di natura più passiva - di ascolto, accoglienza, chiarificazione - ora invece più attiva, di domanda, di stimolo a un cambiamento di prospettiva, di umorismo anche (mai di sarcasmo), di allargamento del discorso, di esplorazione delle alternative che una situazione ci offre, di offerta della propria reazione personale, anche di leggera provocazione qualche volta, di riassunto e bilancio del cammino fatto finora, tutti interventi, questi più attivi, che richiedono una certa dose di esperienza. Questi sono elementi che si possono trovare anche in altri rapporti, solo che il counselor lo fa professionalmente e quindi deve averci le mani in pasta, e aver studiato in se stesso e negli altri che cos’è la relazione.
E’ la relazione che determina tutto. Quindi, indipendentemente dalla scuola a cui si appartiene, è certamente meglio una buona relazione che non una buona tecnica o delle buone idee. Quando propongo a qualcuno di rivolgersi a un counselor, penso alle qualità della persona a cui faccio l’invio più che alla sua scuola, che ha un’importanza relativamente secondaria.
La scuola ha il suo valore di aggregazione e di rappre-sentatività, ma l’importante è come mi gioco quei 50-60 minuti. Credo che il counseling possa essere definito come l’essenza di una buona relazione, quindi quando c’è quella si mette in moto tutto ciò che ci interessa.

Nei suoi libri sono sempre presenti le risorse positive della vita e dell’essere umano, la bellezza, l’arte, la natura, le qualità dell’anima che l’uomo vive in sé e condivide con gli altri. Senza mai stare nella diversità etichettante della patologia, il bisogno di trattare la malattia. Se penso a “La forza della gentilezza” oppure “La bellezza e l’anima” li rileggo e li propongo trovandoci fondamentalmente il counseling.
E’ vero, lo scopo di quei libri è di raggiungere chiunque voglia crescere, e anche coloro che lavorano nel campo delle professioni di aiuto. I temi sono “ovvi” ma fondamentali, e spesso dimenticati.
Prendiamo per esempio la bellezza. Molti di noi hanno un deficit di bellezza, che viene ignorato. E’ un po’ come la sete per le persone anziane: a un certo punto non percepiscono più chiaramente la sensazione della sete, e quindi possono essere assetate senza saperlo. Così molti di noi sono assetati di bellezza senza saperlo: questo deficit si manifesta come un senso di confusione, di incertezza, di mancanza di significato… Basta introdurre un po’ più di bellezza nella vita di una persona per aiutarla a diventare diversa, cambia la sua maniera di pensare, di stare in rapporto con gli altri, di vedere la propria realtà su questo pianeta.
E’ simile ciò che accade con la gentilezza. E’ anche speri-mentato scien-tificamente, e documentato che la bellezza ci rende più gentili, più prosociali, dal momento che dà serenità e ci aiuta a dismettere i nostri ruoli. Per gentilezza non intendo semplicemente la cortesia, piuttosto intendo il cuore, il rispetto, l’empatia, la presenza, tutte qualità che appartengono al counseling. Gentilezza e bellezza sono delle risorse. Se vogliamo sono a nostra disposizione, se vogliamo possiamo usarle, solo che molto spesso ce ne dimentichiamo. E sono entrambe degli elementi biologici, fanno parte del nostro passato ancestrale, infatti li troviamo anche negli animali. La gentilezza non è un artefatto.
E’ un comportamento prosociale, fa parte dell’uomo, insieme alla crudeltà e alla ferocia. In questi decenni sta cambiando radicalmente la nostra visione di chi è l’essere umano, e questo influenza tutte le professioni d’aiuto e quindi anche il counseling.

Come mai il counseling, riconosciuto e consolidato da decenni negli Stati Uniti come in diversi paesi europei, in Italia sta emergendo socialmente solo in questi anni? Cosa lo favorisce oggi?
Bisogna aver pazienza, credo. Io appartengo alla generazione di psicoterapeuti che all’inizio hanno affrontato le incertezze di  una professione ancora da definire.
Venivano i carabinieri negli studi degli psicoterapeuti per indagare su cosa facessero, chi non era medico poteva avere dei problemi. Quando dovevo compilare la mia dichiarazione dei redditi scoprivo che la mia categoria professionale non esisteva, era messa assieme a quella dei maghi, dei venditori ambulanti, altre professioni che, con tutta la loro dignità restano ben lontane dalla mia, ma stavano tutte dentro uno stesso calderone: “professioni varie”. Sul counseling siamo in ritardo come lo siamo stati nella psicoterapia.
Una volta i problemi delle persone potevano essere risolti attraverso una chiacchierata fra amici; il fatto che ci sia tanto bisogno oggi di psicoterapeuti e di counselor potrebbe apparire come un fattore negativo. Può significare che viviamo in una società più fredda, che demanda a ruoli specifici funzioni di calore e di ascolto che dovrebbero già appartenere al tessuto sociale. La società stessa dovrebbe essere terapeutica: ma non lo è.
C’è stato sempre bisogno di figure di riferimento: il sacerdote, lo sciamano, anche l’insegnante, a cui rivolgersi per chiarirsi le idee, per potersi confrontare, per essere confortati o indirizzati in qualche maniera.
E’ naturale che ci siano anche ora. E che emerga la figura del counselor allora diventa un fatto positivo.
Nel caso del counseling bisogna fare attenzione con certe parole, “cura, guarire, terapia”. Trovo giusto che siano parole non appartenenti al counseling. Il counselor non cura. Poi però è anche vero che ci sono molte persone che hanno facoltà curative, perché se stiamo assieme a loro ci sentiamo meglio. Posso andare dal barbiere, fare due chiacchiere con l’edicolante, e, chissà come mai, dopo mi sento meglio. Perché magari quelle persone hanno una presenza benefica, senza neppure rendersene conto, e se prima avevo una piccola ferita, una preoccupazione dopo aver scambiato qualche parola con loro mi sento meglio. In questo senso hanno facoltà connaturate che direi “curative”, anche se non si fanno pagare. E allora anche un counselor, prima ancora di dedicarsi alla sua formazione, può avere facoltà curative, anche se nel senso più ristretto della parola non esercita una cura, una terapia. Se una persona ha una patologia è bene che vada da uno psico-terapeuta o da un medico.

Sono due modalità e livelli diversi, una si svolge nel ruolo professionale, l’altra appartiene alle attitudini proprie che l’individuo mette in gioco nella vita e nelle relazioni umane.
Sì. Aggiungerei che quello che consiglio a coloro che vogliono fare il counselor è di trovare una loro nicchia dedicandosi a competenze specifiche. Per esempio il counseling scolastico, aziendale, di coppia, sportivo, spirituale. Credo che ci sia uno spazio importantissimo per loro, e chi studia per diventare counselor farebbe bene a pensare a una applicazione in un’area specifica di competenza. Perché il fatto di offrire qualità interiori personali resta indubbiamente la prima condizione che bisogna saper offrire nel counseling, non funzionerebbe altrimenti. Però vale la pena acquisire competenze più specifiche, conoscere i limiti, le applicazioni, le dinamiche proprie all’interno, ad esempio, del counseling scolastico. Ci sono persone che per lavoro danno ripetizioni scolastiche, ma al tempo stesso usano elementi del counseling. Si potrebbe pensare che questo non sia appropriato e professionale, ma io non lo credo, perché magari quel ragazzo e ragazza non avrebbe accettato di andare dal counselor, in questo modo invece ha la possibilità di avvicinarsi con semplicità anche ad argomenti più delicati.

La riflessione che nasce in questo caso è: e la responsabilità del cliente, il valore della sua scelta di chiedere aiuto?
Il primo passo è sempre del cliente. Ci vuole l’intenzione. Poi deve essere guidato nell’ambito di una società in cui i vari ruoli e funzioni non sono ancora ben definiti.

Quindi mettere precise abilità di counseling al servizio di altri campi di intervento che presuppongono una buona componente relazionale
E’ tutto ancora in fieri naturalmente. Che io sappia, non c’è ancora nessuna regolamentazione ufficiale consolidata che definisca con precisione le modalità di intervento nei vari ambiti specifici possibili con il counseling.
E’ necessario che i counselor facciano quello che è stato fatto dagli psicoterapeuti trent’anni fa. Devono modellare la professione, che oggi non ha ancora una forma, un volto ben specifico nella nostra società.
In ciò c’è anche molto di positivo.
Qualcuno si sente in ansia per questo, è sempre più rassicurante avere dei confini ben chiari al proprio ruolo. Per il counselor non è ancora così, non è una figura che ha al momento pieno titolo nella nostra cultura, ma questo lascia anche più spazio nell’inventare questa professione da noi.

E per farlo potrebbe essere d’aiuto lavorare, confrontarsi, fare rete per ricercare e costruire insieme, oltre le differenze dei modelli di appartenenza o degli ambiti di intervento, oltre gli obiettivi strettamente propri…
Certamente, e c’è molta energia in questo senso. Lo scorso ottobre ad esempio la nostra Scuola ha organizzato un convegno aperto a tutti i counselor, non solo a quelli di psicosintesi, e c’è stata molta partecipazione, sono emerse molte idee nuove. C’è bisogno di raccogliere materiali, acquisire esperienze, fare ricerca.
Le scuole, considerate anche come istituzioni, che sono necessarie e per contro anche un po’ rigide, rischiano di evitare talvolta un eccessivo spirito di parte. Importante è ricordare che siamo tutti al servizio delle persone. E’ questo che conta.

Molti psicoterapeuti promuovono parallelamente il loro profilo e la loro attività di counselor. E’ chiaro che alla base permane la comunanza della relazione d’aiuto, poi strumenti e modalità si differenziano per la profondità dell’intervento, abbiamo già parlato di cura, terapia, ecc… La domanda è: nella necessità di stare nella sua congruenza, come può lo psicoterapeuta mettere da parte il suo “essere psicoterapeuta” quando si offre in un processo di counseling?
Credo che uno psicoterapeuta possa essere capace di fare counseling. Naturalmente lo farà come è capace di farlo. Può darsi che un counselor ben formato e preparato possa fare tanti interventi molto meglio dello psicoterapeuta. Non è neanche questione di profondità, perché credo che la profondità non sia monopolio di nessuna professione. Il counseling può essere molto profondo. Ci sono persone profonde, ci sono persone più superficiali.

Nella domanda mi riferivo alla profondità più “operativa” di alcuni strumenti, diagnostici, terapeutici e così via, che non appartengono al processo della relazione di counseling
Quando ci si avventura nel descrivere le differenze fra psicoterapia e counseling si va su un campo minato. Si creano dei tabù, si sollevano polemiche, si fanno separazioni, si evoca il corporativismo. E’ anche una questione politica.

Prima lei accennava al fatto che, da psicoterapeuta, le capita di suggerire un percorso di counseling e quindi inviare un cliente a un counselor
Certamente, è una cosa che faccio. Questo è possibile anche nel senso inverso.
Per il counselor è basilare e deontologico valutare l’opportunità di inviare un cliente al professionista terapeuta che possa prendere in carico una situazione che lo esige, nel modo più appropriato e competente. Meno frequente che  a un counselor arrivi un cliente da parte di uno psicoterapeuta.
Spiegherei questo abbastanza facilmente. Firenze, mi pare, è la città con il più grande numero di psicologi. L’Italia è il paese con il maggior numero di psicologi in tutta Europa. C’è quindi una grande competizione. In una società che oltretutto in questo periodo è anche in crisi economica e che non ha chiaro il ruolo dello psicoterapeuta, magari lo conosce solo dai telefilm americani, men che meno quello del counselor, il terapeuta si tiene i pazienti per sé.
Naturalmente io credo che in generale più si pensa con una mentalità competitiva, di parte, aggressiva, e meno si è capaci poi di fare un buon lavoro. Proprio dal punto di vista psicologico sarebbe bene che tutti ci occupassimo meno delle rivalità, più del benessere delle persone che arrivano da noi.
Allora credo che si instaurerebbe una situazione di abbondanza perché si farebbe tutti un buon servizio e quindi ci sarebbero molte più persone interessate al nostro lavoro. Un professionista che non lavora bene crea un danno alle persone, ma anche a tutta la categoria a cui appartiene.
C’è un messaggio particolare che vorrebbe trasmettere a chi si interessa, è in formazione o già pratica professionalmente il counseling?
Ci dobbiamo sentire tutti, counselor, terapeuti, direttori spirituali, insegnanti, e via dicendo, persone che si occupano di altre persone, e le aiutano nel loro cammino. Questo gruppo è molto ampio, e va al di là delle corporazioni, delle epoche e delle culture. Credo valga la pena pensare al counseling, non come un’etichetta professionale, ma come la rappresentazione odierna di una relazione che esiste da sempre nell’umanità. Se ci sentiamo parte di questo, il nostro lavoro può esserne avvantaggiato, perché sappiamo che non siamo soli e che non facciamo altro che svolgere una funzione umana antichissima che non è stata inventata o codificata l’altro ieri, ma che fa parte del nostro essere più profondo, perfino della nostra biologia.


Piero Ferrucci è filosofo, insegna presso la SIPT di Firenze
www.pieroferrucci.it

 

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