Questo articolo costituisce la trascrizione, successivamente riaggiornata in qualche breve punto, dell'incontro “Epidemie e Omeopatia” tenutosi a Firenze, nei giorni immediatamente precedenti alla conclamazione di quarantena obbligatoria. Lo pubblichiamo adesso solo per ragioni logistiche, stimandone l’efficacia, per il tema e le considerazioni esposti, anche dopo queste settimane.

Piccolo orizzonte copyright sandro luciani

 Con questo incontro non ho l’intenzione, la presunzione e neppure gli strumenti adatti per potervi dire qual è la soluzione omeopatica per questa epidemia; l’unica cosa che ritengo utile è stimolare una riflessione sul momento che tutti stiamo condividendo e affrontando, attraverso una lettura omeopatica.

È un momento insolito, che ci chiama ad avere comportamenti insoliti, cambiare abitudini e modalità di relazione: non mi sono mai ritrovato in una sala con persone sedute così distanziate se non per fare degli esercizi e delle esperienze particolari. Forse è quello che ci potrebbe comunicare questo momento: fare un’esperienza particolare.

Parlerò pochissimo dell’Arsenicum, capirete da soli quanto possa essere utile o meno parlare in questi termini, ma comunque qualcosa dirò.

Anche se la maggior parte di voi è un paziente omeopatico, o ha utilizzato nel corso della sua vita rimedi omeopatici, penso sia sempre importante e necessario avere le basi chiare: quindi voglio ricordare che ci sono dei principi, che devono essere presenti e ricordati nei momenti in cui si fa Omeopatia (sia quella fatta attraverso la prescrizione di un medico o anche semplicemente nell’osservazione di una situazione con l’intento di trasformarla in salute).

Tutti voi sapete che Omeopatia vuol dire il simile che cura il simile ed è in genere l’unica cosa che si ricorda. Però, perché si possa parlare di Omeopatia è necessario considerare altri tre principi:

  • il primo fra questi è la dose infinitesimale, cioè quello che si fa con le diluizioni. 
Sapete, infatti, che dentro i rimedi omeopatici non c’è materia ma una sostanza presente in natura che viene diluita ripetutamente fino a non lasciare traccia di sé dal punto di vista molecolare: questa è in grado di alterare la salute delle persone e quindi anche lo stato di malattia.
 
Gli altri due principi, invece, sono quelli sui quali oggi mi concentrerò maggiormente:
  • il principio dell’individualizzazione
  • il principio della totalità.

Il principio dell’individualizzazione è la procedura che gli omeopati mettono in atto durante le consultazioni: quelle domande, principalmente aperte, volte a far esteriorizzare le vostre peculiarità e il linguaggio attraverso il quali ognuno di noi esprime il proprio punto di vista e la propria posizione nel mondo.

Quindi i principi fondamentali in Omeopatia sono questi quattro: similitudine, individualizzazione, totalità dei sintomi, dose infinitesimale; per poter parlare di cura omeopatica devono essere rispettati tutti contemporaneamente.

Durante la malattia si parla attraverso dei sintomi, ovvero il linguaggio del malessere e del disagio che nasce dalla posizione che occupiamo in quel momento. E quindi l'Omeopata, cercando le peculiarità, rivolge domande come “in che condizione stai meglio o peggio? Che tipo di sensazione di dolore senti?” per cercare di identificare qual è la peculiarità di espressione della persona e quindi il suo modo individuale di interpretare la vita durante la malattia. Questo modo individuale di interpretare la vita e i sintomi attraverso i quali questo si mostra, si cerca di osservarli nella relazione che hanno tra di loro, prima li osserviamo e li indaghiamo singolarmente, poi cerchiamo di osservarli nella loro correlazione per dare un quadro che abbia una sintesi e un senso, una coesione. Questi due aspetti, in continua tensione dinamica, sono il principio dell'individualizzazione e il principio della totalità. Spiego ciò perché per poter arrivare al concetto di epidemia bisogna aver chiari questi principi di base attraverso i quali, con la filosofia e la pratica omeopatica, cerchiamo di osservare la realtà.

 Adesso stiamo vivendo tutti una situazione acuta: una malattia acuta per definizione è una malattia che ha una sua origine chiara, una rapida evoluzione ed una risoluzione altrettanto rapida con la guarigione oppure con la morte. Questa condizione si manifesta ad un certo punto, inserendosi sullo stato di costante relativo benessere o malessere, che è il nostro stato quotidiano o come si dice in Omeopatia la nostra malattia cronica. Ad un certo punto si percepisce un cambiamento: si identifica un inizio, si ha l’apice della sintomatologia, poi una regressione che può portare alla guarigione completa o alla morte. Questa è la malattia acuta.

Questo cerchio che ho disegnato è il nostro stato ideale di salute, cioè la situazione in cui ci troviamo nel centro esatto e quindi abbiamo tutto a portata di mano, in equilibrio cerchi Valerio Selvacon l’interno e l’esterno: qualsiasi cosa, quindi, è equidistante. Questo tuttavia è l’ideale non umano, non reale.

Ognuno di noi invece occupa una diversa parte di questo cerchio, che rappresenta la nostra potenzialità ideale, vive una parte di sé stesso, una parte del proprio essere.

Quello che succede è che la vita, non essendo fortunatamente statica, ci presenta continuamente degli stimoli con cui l’ambiente esterno ci stuzzica e quindi, ad un certo punto, succede che qualcosa dall’esterno ci induce a cambiare il nostro punto di vista.

Quando si fa l’influenza, la febbre o qualsiasi altra malattia acuta stiamo a casa, normalmente, cambiando situazione. Si smette di lavorare; si mangia in maniera diversa, si dorme in maniera diversa, la temperatura cambia come cambiano anche le percezioni corporee e le sensazioni.
Cioè ci spostiamo da uno stato di abitudine e di automatismo verso un’altra dimensione, sviluppando un quadro più denso che chiamiamo la malattia acuta.
Facciamo quindi esperienza di una parte di noi che non è quotidianamente espressa.
Se noi osserviamo questa situazione acuta, che può essere una malattia virale o batterica ma anche un trauma fisico o emotivo, ovvero una situazione che ha una causa e ci fa cambiare stato improvvisamente, abbiamo la possibilità di integrare questa nuova conoscenza di una parte di noi stessi nel nostro mondo precedente.
La malattia acuta viene prodotta tramite l'intervento di una causa scatenante esterna, che colpisce la nostra suscettibilità. Una causa scatenante per esempio può essere il vento freddo, un colpo, un lutto o una qualsiasi cosa che non siamo stati in grado di sostenere; una qualsiasi cosa che è stata capace di toccarci in una nostra fragilità. Se non fossimo fragili non ci si ammalerebbe. Quindi, sia la causa che determina l'espressione della malattia (che va a toccare il nostro punto debole) sia la malattia stessa sono espressioni della nostra fragilità.
Quindi, quando facciamo esperienza di una malattia acuta ed entriamo in una parte ignota di noi stessi, la quantità di informazione che sperimentiamo e che abbiamo la possibilità di comprendere aumenta la pienezza di noi stessi e il nostro cerchio si dilata, diventa più ampio, e in questa espansione sposta anche il centro, il punto di vista individuale, avvicinandoci maggiormente all’ideale stato di salute.

 Vi dico questo perché una tra le intuizioni più interessanti, intense e generatrici di salute del creatore dell’Omeopatia, Samuel Hahnemann, è quella di estendere l’approccio omeopatico di osservazione e cura della malattia acuta del singolo individuo anche alla collettività che in un certo momento e in un certo spazio sta affrontando una malattia acuta collettiva, cioè una malattia epidemica.

Hahnemann ha quindi esteso il concetto della correlazione tra malattia acuta e cronica individuale alla malattia acuta e cronica della collettività. Una malattia epidemica è la stessa malattia, la stessa espressione di malattia, di squilibrio e di fragilità che viene condivisa da tante persone in uno stesso tempo e in uno stesso spazio.
Adesso per esempio, lo spazio e il tempo di questa epidemia stanno crescendo costantemente ma comunque le sue manifestazioni si assomigliano molto, quindi Hahnemann suggerisce, nel momento in cui possiamo utilizzare l’Omeopatia nelle condizioni epidemiche, di osservare la collettività come se fosse un organismo unico e quindi, i principi che noi utilizziamo per analizzare la malattia acuta individuale, li possiamo mettere in pratica nell’osservazione e nel trattamento della malattia acuta collettiva.
È soltanto un fatto di aumentare la dimensione della totalità dei sintomi di cui parlavamo prima. Come all’individuo chiediamo di parlarci dei sintomi che emergono in tutte le parti del corpo e ne indaghiamo le peculiarità, la stessa cosa nella malattia epidemica si fa utilizzando tutte le persone che sviluppano questa malattia collettiva come se fossero degli specchietti diversi, con diversi punti di vista su una stessa situazione. Questa fu un’intuizione portentosa.
Quando Hahnemann e gli omeopati dei secoli scorsi affrontarono le malattie epidemiche attuando questo tipo di studio, identificarono dei rimedi che poterono essere utilizzati ad occhi chiusi: si identificò il quadro complessivo della malattia epidemica, si scelse il rimedio più appropriato secondo i quattro principi di cui abbiamo parlato finora (similitudine, individualizzazione, totalità e dose infinitesimale), il giusto rimedio omeopatico per quella situazione acuta collettiva.
 
Nella storia sono stati pubblicati alcuni effetti molto significativi della terapia omeopatica sulla diminuzione della mortalità e dell’incidenza della malattia epidemica, e in alcuni casi Hahnemann proponeva i rimedi efficaci nell'epidemia come profilassi, con l'idea di colmare la suscettibilità alla malattia individuale (e collettiva) tramite l'assunzione del rimedio simile alla malattia epidemica.
 Su questa base, ultimamente si sono susseguite prescrizioni da parte di diversi omeopati in tutto il mondo, che si basano sui sintomi generici di questa epidemia da Covid-19 osservati dai medici convenzionali, come tosse secca, polmonite interstiziale, congiuntivite ecc. e attraverso questa lista di sintomi vengono scelti uno o due rimedi che possono rappresentare questa totalità.
A mio avviso però, così come è importante considerare questo aspetto generale della malattia, è importante vederne le peculiarità, la famosa individualizzazione. Per un medico che non ha la formazione omeopatica o comunque non è abituato a vedere quali sono le peculiarità nella malattia collettiva è difficile poter fare un’analisi omeopatica della malattia epidemica così come Hahnemann fece nei tempi passati, e poi non solo lui.
Dal mio punto di vista il consiglio dell’Arsenicum può essere utile ma non lo trovo necessario al momento, soprattutto non lo prenderei come verità assoluta, anche se capisco che in questo momento di confusione abbiamo bisogno di certezze.
Io non sono qua, come nessun altro, per dare certezze e convinzioni a cui aggrapparsi; quello che cerchiamo di fare è di stimolare una riflessione piuttosto che dare la soluzione che si sostituisca alle proprie scelte. E questa è l’altra cosa di cui vorrei parlarvi perché è un po’ la base metodologica, filosofica e anche pratica dell’approccio omeopatico.
In questi giorni ho pensato a come poter osservare quel poco che riesco a vedere di questa situazione per stimolare una discussione che non necessariamente deve essere omeopatica.

È interessante, tuttavia, dal punto di vista omeopatico poter scambiare delle idee partendo da questa metodologia. Così ho iniziato a pensare a quali sono le caratteristiche di questo momento che tutti stiamo vivendo in prima persona, anche se la sensibilità individuale è molto più forte e ha a che fare con le proprie fragilità.

Emma Pistelli, nel suo intervento precedente, ricordava che il virus è un organismo non vivente in autonomia, un parassita che ha bisogno di qualcun altro per poter vivere, fatto di una natura impersonale. Non è un batterio, che è una cellula con dei confini definiti: diversa è, quindi, la sua capacità di superare i limiti e le barriere. Questa è un po’ la peculiarità del nostro tempo, secondo me, nel momento in cui c’è stata negli ultimi anni una grandissima attenzione e fragilità rispetto al sentimento del confine. Questo ci ha portato in realtà all’esatto opposto: il virus infatti passa attraverso i confini ed è questa la sua particolarità.

Ho pensato, quindi, che la nostra fragilità possa essere in questo momento rappresentata dal senso del confine: oggi siamo tutti separati. Per quanto condividiamo e cerchiamo di rispettare delle norme in questa fase acuta e sconosciuta, lasciamo anche alla paura la possibilità di elargire degli stimoli per cambiare il nostro punto di vista. Siamo tutti separati, il confine del nostro corpo e l’attività di relazione sta cambiando ed è già cambiata tantissimo: quindi, l’espressione che stiamo vivendo è quella dell'isolamento.

È importante riflettere sul concetto di confine, di barriera, di prigione: ognuno di noi è come se vivesse una prigione, cambiano i confini e cambia la prigione.

Non ci sono risposte perché lo scopo della salute e della guarigione, a mio avviso, non è di dare risposte ma di stimolarne una propria.

L’idea è anche quella di riflettere sull’attitudine di voler dare sempre una verità assoluta, di mettere dei limiti e confini sicuri e, quindi, ho pensato che anche il nome di questo virus avesse in sé, in qualche modo, uno spunto per una speculazione. Questa corona, in un momento in cui si parla tanto di sovranità e di sovranismo, in un momento in cui il Regno Unito si sta distaccando dall’Europa al di là di quello che si può pensare o meno, porta una ricorrenza di autoritarismo e sovranismo.
Qual è la peculiarità del sovrano? Di avere l’autorità sui sudditi, con un andamento verticale del modello di relazione sociale e politico dove vi è un qualcuno che prende decisioni e le impone agli altri, che in maniera passiva le assimilano.
Al centro di questo modello c’è l'individuo singolo che rappresenta l’estrema espressione dell’autorità, e ognuno di noi quindi deve essere più bravo, forte, performante, sicuro, vero, dare risposte chiare. Però capite che in questo momento un piccolo essere “non vivente” supera i confini e mette in crisi questa verticalità…: non ci sono più verità, cambia tutto, non c’è autorità, anche se cerchiamo di imporla!
Non che io contesti questo, è nel nostro DNA di animali essere autoritari e avere questa attitudine verticale. Però credo che un'osservazione di questo tipo sia interessante farla.

E quindi proporrei di sfruttare l'espressione di questa malattia acuta collettiva per osservare quanto il modello autoritaristico, verticale, assolutistico possa essere messo in discussione e magari favorire un'integrazione, di questa nostra attitudine naturale, con un approccio più “orizzontale” o meglio trasversale, in cui ognuno può essere consapevole delle proprie scelte e parte attiva della relazione. Ma per fare questo è necessario un processo attivo di trasformazione.

Con Simona Mezzera, prima del Covid-19, attraverso un lavoro di analisi e studio ci confrontavamo sull’influenza di quest'anno, condividendo il fatto che quest’anno un vero inverno non c’è stato: è stato caldo e senza pioggia. In inverno stiamo in casa, ci difendiamo dal freddo, si hanno delle relazioni più circoscritte, non si viaggia e non andiamo al mare a incontrare un milione di persone, ci avviciniamo al focolare di casa (per fare una metafora). Quest’anno tutto questo non è successo, secondo natura, però lo stiamo facendo adesso in maniera forzata: stiamo infatti vivendo un inverno di isolamento forzato, come se questo momento naturale, che è stato un po’ bypassato in maniera “perversa”, ora lo viviamo comunque in modo artificiale.

Quindi, ho pensato che oltre a osservare gli aspetti meno piacevoli di questo momento, potrebbe essere utile utilizzare questo approccio per stimolare una riflessione che ci possa portare a una guarigione sfruttando questo momento di crisi. Detto tutto questo vi inviterei, proprio a partire da questa dinamica, a riflettere sulle cose di cui abbiamo parlato: il senso del confine e la differenza tra il confine, la barriera e il limite in questo modello autoritario e verticale in cui ciascuno di noi (nessuno escluso) è immerso e contribuisce ad alimentare.

Viviamo la nostra vita un po’ su questo confine, con questa conflittualità e violenza verbale degli ultimi tempi e con questo bisogno di vivere e difendere i confini e limiti in ogni senso e la percezione di essere invasi, e in questo momento particolare, contagiati. Il bisogno di dare così tanta attenzione ai nostri confini è rappresentato in questo momento dal bisogno di identificare il proprio essere attraverso lo scontro, cioè io conosco me stesso e i miei confini soltanto se li faccio sbattere contro qualcosa o qualcuno: mi sembra evidente che ci sia sempre questo bisogno di conflitto (parlo per la popolazione generale) per trovare la propria identità ed è come se fossimo tutti sulla superficie di noi stessi, sul nostro confine. Perciò nella risposta conflittuale all’esterno troviamo noi stessi: questo è il senso del confine per me.

Suggerirei invece di trasformare questo “bisogno di confine” con il “senso del limite”.
Il limite lo si incontra partendo dal nostro centro ed esplorando lo spazio e il tempo in cui viviamo, in senso centrifugo. È il partire dalle proprie suscettibilità, fragilità e osservazione di se stessi per trovare quali sono i nostri limiti umani.
È come quello che siamo costretti a fare in questo periodo di quarantena, in casa. Ognuno di noi è costretto ad esplorare anche il più piccolo centimetro della nostra casa per poter riempire in maniera attiva le nostre giornate. È così piccolo lo spazio in cui siamo costretti a vivere e così lungo il tempo, che siamo costretti a conoscerne tutti i più piccoli dettagli. In questo modo esploriamo i nostri limiti, a partire dal nostro centro reale. Ci riappropriamo del nostro spazio e del nostro tempo. Ci riavviciniamo al centro di quel cerchio ideale con il quale abbiamo iniziato questo discorso. E ne conosciamo tutte le sfumature, con l'auspicio di poter entrare in relazione con il mondo con una nuova pienezza e consapevolezza. Con un nuovo rapporto con il tempo, il silenzio e la gentilezza. E magari con un po' di umiltà nei confronti di questa vita che ci sta mostrando con molta serenità “chi” ha davvero il potere di alterare gli equilibri delle cose.
 
In questo momento abbiamo tutti paura di morire, o no?
Io penso che a livello globale questa ansia e terrore ci siano, parlando della collettività.
Penso che la paura di morire ci accomuni tutti, il nostro unico limite e verità che conosciamo, o dovremmo conoscere e rispettare, è che tutti moriamo. Però è un limite verso il quale si può anche mostrare umiltà, invece di sentirsi immortali pensando di poter fare quello che si fa a vent’anni anche a ottanta, e che magari la nostra pelle sia perfetta fino a quell’età.
Quindi quello che vi propongo è di provare a osservare quale può essere la fragilità di questo momento, questo bisogno di trovare solo nel conflitto la nostra identità, conflitto fra le polarità opposte ed estreme. Questa conflittualità può in qualche modo sciogliersi e non necessariamente vedere l’uno come l’opposto dell’altro o uno più vero e giusto dell’altro. In questo momento in cui siamo costretti a vivere questo inverno “imposto”, abbiamo i bambini a casa perché non vanno a scuola e potremmo “sfruttarli” come elementi più vitali e sani per avere uno specchio di quello che stiamo vivendo grazie alla relazione con loro, per alleggerire questo carico che ci portiamo, questo conflitto sui confini. Osservare come entrano in relazione i bambini tra di loro e come risolvono gli eventuali conflitti, credo che potrebbe essere di aiuto a noi adulti, che ci riteniamo così tanto più grandi di loro, come se non siano mai alla nostra altezza.... Con l’idea che questo momento possa servire, a noi adulti in particolare, per crescere o per fare un’evoluzione individuale e collettiva. Durante l'inverno si prepara la terra per seminare i raccolti futuri, che matureranno in una nuova primavera e per una nuova ri-nascita.
 
D/ “Piuttosto che scontro e limite, può essere un tentativo abbozzato di sentire comune la necessità di limite? In quanto manca?”
In ogni aspetto della vita sono sempre presenti le polarità opposte contemporaneamente e se noi abbiamo l’umiltà di osservare come funziona la vita, con i suoi ritmi fluidi e le stagioni (anche se adesso sono un po’ diverse) c’è un’alternanza tra vita, morte e rinascita, tutto un costante fluire di armonia di polarità opposte. È chiaro che in ogni istante l’osservazione dovrebbe tenere conto di entrambe le polarità, quindi sia l’assenza di confine, sia il bisogno polarizzato di creare più confini possibili.

Una via diversa, una terza via, può essere quella di osservare queste peculiarità per poterne vedere la fluidità. Senza schierarsi con un lato o con l’altro, senza dire per esempio “sono tutti pazzi quelli del sistema sanitario che vogliono isolarci tutti” oppure “dobbiamo fare isolamento, altrimenti è pericolosissimo”, credo che dovremmo trovare un equilibrio dinamico e fluido tra queste due istanze che sono in ognuno di noi. Io la sento tanto la compresenza di queste sollecitazioni, il pregiudizio che ci limita nei confini e ci spinge a chiudersi, la fazione, l’idea di doversi schierare e di avere la verità in mano e di avere, quindi, necessariamente un conflitto.

Potrebbe essere utile trovare un tempo di silenzio: è vero che durante la malattia acuta il tempo di reazione deve essere veloce e che quindi dobbiamo stare al passo con i mutamenti rapidi delle circostanze, ma al contempo è importante anche mantenere sempre presente l’idea di base che c’è una totalità più ampia di noi, che è la vitalità stessa e la vita stessa che c’era prima di noi esseri umani e che verosimilmente ci sarà anche dopo l’estinzione dell’essere umano. Sviluppare l’umiltà ed eliminare quindi la presunzione di essere verticali sempre.

D/ “Questa situazione porta a isolarci, ci allontaniamo dall’esterno, ma ci avviciniamo al nostro cerchio. Può essere un’occasione di tornare a sé, dato che adesso tutta la nostra attenzione è verso l’esterno e ci siamo indeboliti perché vogliamo sempre essere connessi come i telefoni, ma noi siamo umani. Non abbiamo la possibilità di interagire davvero.
Questo virus ci può portare a ritrovare un equilibrio?”
Può, questa è la sfida, la potenzialità: noi in questo momento di isolamento abbiamo le connessioni virtuali, possiamo alimentare questa connessione virtuale, perché siamo tutti a casa. In noi stessi sono compresenti queste due dimensioni, isolamento e connessione: sta a noi scegliere; io sono d’accordo con te che c’è sempre questa potenzialità dentro ogni crisi, anche individuale, di ascoltarsi ed entrare dentro di noi per prendere coscienza di questo spazio che non stiamo vedendo.

Possiamo evitare, possiamo prendere i farmaci per mandare via la febbre e antibiotici (sacrosanti se volete), sta a noi la scelta, c’è la possibilità dell’una e dell’altra, per questo mi sento di ricordare che ci sono entrambe le potenzialità, questa è la strada più faticosa: la febbre è fatica, richiede presenza, sacrificio, rinuncia con scelta e consapevolezza.

Con questo non voglio dire che dobbiamo avere più malattie acute possibile per rientrare in salute. La malattia acuta comporta sempre un sacrificio e una fatica, perciò rappresenta una direzione di guarigione ma imposta dalla vita, che ci chiede qualcosa in cambio (o qualcuno).

Se riusciamo ad osservare queste dinamiche e riusciamo a cavalcarle e utilizzarle, per percorrere attivamente e volontariamente il percorso della guarigione, della scoperta e integrazione dei nostri lati oscuri ed esclusi, allora non avremo bisogno della malattia acuta.

Questo è anche lo scopo della cura omeopatica. Però nel momento in cui la malattia acuta è già presente, si è già manifestata, almeno possiamo rispettarne il ruolo e sostenerne il percorso, piuttosto che concepirla come un nemico da sconfiggere... per l'ennesima volta.

Siamo noi stessi il motore della malattia, perciò considerarla come un nemico è fare violenza contro noi stessi. Questo è un momento di cura e non un momento di guerra.

Lo vediamo anche nel modello narrativo che va per la maggiore quando si parla di salute e malattia. Durante questa epidemia si sprecano i riferimenti a immagini di guerra, anche il lessico utilizzato dai mass media è lo stesso di quello che si usa durante un periodo di guerra. Ancora confini, scontro, vincere, verticalità.

La cura invece è un movimento orizzontale, silenzioso, rispettoso. Un incontro tra esseri simili. Tra simili totalità individuali. Questo è il principio della cura omeopatica, ma è anche un'attitudine naturale dell'essere umano. Basta fare silenzio per poterla sentire. E questo è il principio della dose infinitesimale, la diluizione ripetuta che fa gradualmente sparire i confini della cruda materia e permette la comparsa silenziosa delle virtù trasformative. Credo che dovremmo imparare a riconoscersi l'un l'altro, con un silenzio fatto di intensità e presenza, come simili totalità individuali, per poter aver accesso anche a quella porzione di mistero che ci anima tutti.

D/ “Siamo già malati di Coronavirus solo a leggere gli articoli. Dobbiamo preoccuparci oppure no? Ci dobbiamo serrare tutti oppure no? Fino a che punto devo preoccuparmi?”
Nel concetto di preoccupazione c’è l’idea di preoccuparsi prima che le cose accadono ed è l’ansia, vivere un qualcosa che non è presente: preoccuparsi è già qualcosa che ci condiziona e ci fa vedere in modo irreale. La preoccupazione è sempre indice di qualcosa di innaturale.
Non so quanto semplificherei questa cosa perché non ho esperienza. Come diceva Simona Mezzera, ci sono dei casi di polmonite da Coronavirus anche in persone non anziane, e questa polmonite ha spesso bisogno dell’ausilio respiratorio in ospedale, perciò credo che sia una malattia piuttosto grave.
Però secondo me è una situazione che può essere considerata anche al di là del virus, questo momento è un agente esterno che sta alterando in maniera forzosa il nostro punto di vista, qualcosa che ci sta colpendo e necessariamente si deve cambiare tutta la vita.

Quindi si può, sulla base di questa spinta, rinchiudersi sempre di più o non curarsi della situazione ed esporsi con leggerezza; oppure si può pensare “prima o poi potrò incontrare questa situazione, questo virus…”, ma credo comunque che cambiare punto di vista ci possa permettere di avere un’osservazione diversa. Per esempio, se i bambini non vengono colpiti, impariamo da loro, forse non hanno suscettibilità per questa malattia collettiva. Quali sono le cose positive? Troviamole. Non poniamo l’attenzione soltanto su chi è malato, ma magari anche su chi è in salute. Aumentiamo la polarità opposta per bilanciare lo squilibrio. Investiamo tempo, spazio e attenzione verso la salute e l'armonia. L’interruzione della scuola ci dà la possibilità di avere i bambini a casa, che sono i più sani e nel concetto di limiti e confini hanno tanto da insegnare agli adulti.

Per rendere più agevole la consultazione del sito, PerCorsi utilizza cookies tecnici. Continuando a navigare autorizzi il loro uso.