Regia di Gabriel Axel, Danimarca 1987.

Il pranzo di Babette: è cura del cibo o cibo che cura… il singolo e la comunità? Babette
In uno sperduto paesino della Danimarca, in riva al mare nella zona dello Jutland, alla fine dell’ottocento, vivono due attempate signorine, le sorelle Martina e Philippa. Le due sorelle, ci spiega la voce narrante femminile che ci accompagna lungo il film, hanno speso la vita e quasi tutta la loro modesta rendita in opere di bene. Il loro padre era stato Decano e Profeta e aveva fondato a suo tempo una setta religiosa, di cui restano ancora pochi, anziani ma fedeli seguaci.
Il Decano è morto da tempo, ma le sorelle ancora radunano i residui seguaci a ‘leggere e interpretare il Verbo e onorare la memoria del Maestro’ nella loro modesta casa. Martina e Philippa hanno anche una domestica francese, Babette, cosa molto sorprendente dato il rigore della loro vita puritana, ma la spiegazione di ciò è parte della storia che il film racconta e...
‘deve essere ricercata nel profondo segreto del cuore’…
Così inizia “Il pranzo di Babette” di Gabriel Axel premiato con l’Oscar come miglior film straniero nel 1987, tratto dal racconto omonimo di Karen Blixen. L'apertura induce lo spettatore ad interrogarsi per scoprire quale segreto si celi dietro questa presenza stra-ordinaria... la quale rivelerà la sua identità divenendo l'artefice di un pranzo altrettanto straordinario da trasformare la vita di tutta la comunità. Ma per scoprire il motivo profondo da cui ha origine la vicenda occorre seguire la via del cuore. Ed è in tale direzione che dobbiamo muoverci per comprendere il significato della storia che il film narra. Un film sul “gusto di vivere”.
“Si deve risalire alla giovinezza delle due, quando le figlie del Decano erano dotate di grande bellezza... simile a quella degli alberi in fiore, ma esse erano completamente dedite al padre e ad aiutarlo nella sua vocazione... L'amore terreno e il matrimonio  erano considerati argomenti futili, mere illusioni...”
Tutta la prima parte del film descrive la corrispondenza alle attese di un padre giusto e venerato, ma che impone uno stile di vita comunitario rigidamente orientato alle “cose dello spirito”, le uniche che hanno “valore”; il desiderio di non dispiacerlo ha obbligato, più o meno consapevolmente, le due giovani donne ad una dolorosa scissione rinunciando, insieme  alle gioie dell'amore, ad ogni altra soddisfazione  dei sensi. I sensi, il nostro sentire, la porta di accesso alla vita, attraverso la quale si forma il legame con il mondo e si sviluppano i sentimenti, gli affetti che nutrono la nostra vita psichica, sono negati.
“Le vie del Signore passano per le montagne innevate...” ma non si tuffano nelle valli, a contatto con l'humus, con quel terreno fecondo dove nasce e cresce la vita, con l'umiltà del nostro essere umani...
Tutto è puro, elevato, metafisico... Freddo. Non c'è caduta, dolore, smarrimento in questo mondo di perfezione in cui il sentire è bandito dalla tavola quotidiana. (E quanti di noi si rifugiano in ideali quanto impossibili mondi...).
Ma un comportamento “distaccato”, mentre ci pone “al di sopra” delle miserie e sofferenze umane, ci esclude dal partecipare al contatto con la vita, del calore che da questo contatto o contaminazione ne deriva.                                     
La distanza emozionale, che ci impedisce di sentire il calore della vita, crea quel vuoto incolmabile, quella fame impossibile da soddisfare che nessun cibo è in grado di nutrire.
Martina e Philippa, considerate dal padre, “la sua mano destra e la sua mano sinistra” come diretta e imprescindibile emanazione della sua volontà, “hanno speso tutta la loro vita in opere di bene” ma la loro vita è stata svuotata di quel bene prezioso che è l'autonomia. L'adesione/identificazione con il rigoroso Io-ideale ereditato dal paterno ha impedito al loro sentire di esprimersi, di dare forma al loro mondo interiore, sostanzialmente di crearsi una vita propria. Creare… diventando l'artefice del proprio mondo.
La scelta radicale di una vita in obbedienza ad un Dio-Padre che non riconosce i beni della terra e nega l'origine dell'uomo, mortificando il corpo, costringe i figli (quelli naturali così come i discepoli) ad una mutilazione di se stessi, la cui inconsapevole perdita genera un malessere che non può non ripercuotersi sul singolo come sull'intera comunità generando quell'astio, quel senso di insoddisfazione e soffocamento che fatalmente finisce per “avvelenare” le stesse relazioni.
Questo accade ai discepoli del decano così attenti a separare nella vita quotidiana ciò che riguarda il corpo da ciò che riguarda lo spirito, disprezzando il primo ed innalzando il secondo: lo scompenso prodotto dalla scissione, le privazioni e l'ignorare il corpo li ha fatalmente portati all'aridità e alla freddezza, alla rabbia, ai rancori, ai litigi...
Ecco allora che alla rarefazione del tempo e all'estrema diluizione degli spazi nell'ottocentesco paesino dello Jutland spazzato dai venti e dalle maree, consegue quel doloroso ripiegarsi dell'anima entro le anguste coordinate dei propri egoismi e delle proprie rinunce.
Poi, in una tarda sera di settembre, prima che arrivi definitivamente la “fredda” stagione invernale, qualcuno-qualcosa bussa alla porta... E' un dono (la cui preziosità si scoprirà in seguito) a cui non si può dire di no... Una donna straniera, disperata, che ha perso tutto... che chiede ospitalità in cambio di un servizio, quello di prendersi cura delle due donne, delle loro persone; una governante, una madre buona, un femminile attento ai bisogni delle persone a lei affidate, che nella casa porterà ricchezza. “Da quando c'è Babette siamo più ricche di prima”, osserveranno le sorelle.
Babette, figura di sintesi, che ricucirà l'antica scissione ricongiungendo le parti separate, diventa metafora del prendersi cura di sé, scoprendo insospettabili ricchezze, sentendo la vita risorgere... Il latte, il nutrimento amoroso torna a nutrire l'esistenza delle due donne. Non a caso la creatività di questa donna “alchimista” capace di trasformare gli animi, si esprime attraverso il linguaggio del cibo, attraverso il quale restituirà alla comunità il “gusto” di vivere…                  
Così in un pranzo, preparato con cura-attenzione-abilità-conoscenza, con gesti che comunicano un'intenzione dietro ad ogni piatto, dove si assapora l'amore che diventa arte-passione creativa (o dove si esprime l'arte dell'amore), il trionfo del gusto a poco a poco si insinua nei puri ma aridi mondi praticati dai commensali. Il calore scioglie le loro rigidità; gli anziani timidamente si lasciano andare... i ricordi (la parola ricordo dal latino è “rimettere nel cuore”) affiorano. In una vita magra di felicità, quel poco di bello che c'è stato, viene evocato... con gli occhi lucidi dal piacere che ha invaso il corpo e lo spirito.  
Attraverso “il gusto”, i commensali ritrovano memoria di sé, di un sé integro che della vita gusta, assapora la bellezza, che dalla vita trae nutrimento e gioia.
E' in questa direzione, del ritrovamento del senso, del gusto di vivere, che spesso ci si muove in analisi, quando tutto appare insipido e insensato, in quella specie di “nebbia” che tutto avvolge, che attutisce i suoni, che fa perdere i contatti e i contorni del mondo, che annulla colori, ricordi, odori e sentimenti, dentro un'opaca infelicità che rende impossibile la trasparenza delle emozioni, che trattiene dall'esserci fino in fondo nella vita a contatto con le emozioni. Volti grigi, chiusi, rassegnati o rancorosi....  
Inevitabile pensare alla depressione come stato dell'animo in cui regna l'assenza di voglia di vivere, del piacere di vivere, come intorpidimento dei sensi e dei sentimenti, come incapacità di nutrirsi nella perdita dell'appetito, della voglia di fare, vedere, sentire, di ogni forza o risorsa, come guscio vuoto... alla ricerca di un amore che colmi, che    nutra, un amore che non basta mai.
La caligine, nebbia cupa che non si scioglie, che incatena all'angoscia del mondo, somiglia alle brume della comunità in cui è finita Babette: il freddo dentro, le saracche insapori, fino al momento della fortunata (ri)vincita che consente l'espressione del proprio talento, all'impossibilità di trattenere l'urgenza creativa.
Non per ingenua generosità Babette impegna tutti suoi averi nel magnifico pranzo, nel dono memorabile che trasforma la comunità accidiosa (potere assoluto dell'arte), ma perchè non può farne a meno, per vivere, per sé, per non finire lei stessa saracca... L'uscita dalla caligine, da una vita spenta, fredda è una metafora con cui avviare un confronto che rimanda alla ripresa del gusto di “cucinare”, di sperimentare vita, sapori, incontri…
“Un artista non sarà ma povero”... risponde Babette alle due signorine che stupite apprendono come la donna abbia impiegato totalmente la somma vinta nella preparazione del pranzo.
Il gusto della vita passa attraverso il riconoscimento del nostro essere creativi scoprendo inaspettate ricchezze, attraverso la capacità di dare fondo alle nostre risorse affinché si trasformino in cibo di “nuova vita”. Solo nel darsi senza risparmio, senza la paura di restare poveri, derubati o deprivati dei nostri beni, sostanzialmente nell'abbandono di vecchi schemi, baluardi difensivi contro le paure che ci impediscono di sentire e darci alla vita, il panorama si apre verso un'altra dimensione.
Ecco che nel film si coniugano parole come cibo-amore-creatività-piacere di vivere... per concludere questa favola onirica con l'immagine del gruppo che esce fuori, un ballo intorno al pozzo, sorgente di vita… un girotondo che annuncia una nuova stagione: quella del prendere/si per mano... unendo e non separando...

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