Chiaragiannelli2E’ una mattina d’autunno e sto  guardando Oskar nel suo giardino: adesso è un vecchio cane, magro e dondolante, ma anche solo un anno fa era bello: corpo vigoroso, sguardo intenso e uno splendido mantello fulvo. La sua voglia di vivere è indomita e io che lo conosco da tempo vedo ancora, guardandolo così, di profilo, il suo antico splendore. Poi lentamente si gira e sento la fitta di sgomento che sempre mi trapassa quando osservo il suo magnifico muso orribilmente devastato dal cancro. E per l’ennesima volta rifletto sul fatto che le malattie, anche quelle degli animali, raccontano una storia.
Proprio quella storia che loro non possono narrarci a parole, e che perciò non è sempre facile da capire. Quando un organo si ammala, si sa, non è per caso: per l’omeopata è la manifestazione di un disordine che riguarda tutto l’organismo; e molte scuole di pensiero hanno individuato corrispondenze fra i singoli organi e stati emotivi ben precisi, come se ciascun organo fosse chiamato a fronteggiare le emergenze di natura emotiva svolgendo la sua funzione fisiologica: possiamo citare l’esempio dello stomaco che si attiva per digerire una brutta notizia come farebbe per un pasto pesante.
L’interpretazione dell’omeopata è più sottile: quel paziente con l’ulcera gastrica non è semplicemente uno che ha un grosso rospo da buttare giù: è uno che ha difficoltà a buttar giù i rospi, ad accettare e digerire i bocconi amari che il destino gli riserva. Ognuno, in altre parole, si ammala nel suo punto debole. I disturbi di ogni paziente ci parlano di lui e a volte sono più eloquenti e veritieri delle sue parole. Per fortuna, perché i miei pazienti non parlano.
Sono tante le storie che ho visto rappresentate nella sofferenza dei miei pazienti: storie di infelicità o di dedizione, di rabbia o di paura, di dolore, di disperazione o di ribellione. Sono storie semplici, a quattro zampe, o a volte storie complesse, che si intrecciano con quelle dei loro cari, perché spesso gli animali piangono non solo le loro, ma anche le nostre lacrime. Per lo più queste storie restano vaghe ai nostri occhi, appena delineate, un controluce in cui si apprezzano solo i contorni. I dettagli, invece, restano nell’ombra, si possono solo indovinare, intuire, percepire col cuore, senza la certezza di aver potuto mettere ogni tassello del puzzle al suo posto.
Mentre guardo Oskar nel suo giardino d’autunno, me ne vengono in mente altre di queste storie, per fortuna non tutte così tristi: ad esempio la storia di Mus.
Quando lo vidi la prima volta, Mus aveva cinque anni ed era un bel gattone nero a pelo lungo che viveva in appartamento con la sua padrona; soffriva da oltre due anni di cistiti ricorrenti, dovute alla presenza nell’urina di cristalli di struvite,  un’eventualità molto frequente nei gatti; Mus non poteva uscire, vivevano lungo una strada trafficata ed era troppo pericoloso. Però a lui sarebbe piaciuto (quando andavano in campagna in estate lo faceva, ed era molto felice) e si rotolava ovunque sentisse odore di terra; in campagna migliorava anche la sua stitichezza.
Mus era un gatto molto riservato, poco incline alle manifestazioni di affetto e anche assai insicuro e guardingo, ma il desiderio di uscire era più forte delle sue paure: per lui era una necessità. La sua cistite segnalava uno stress territoriale: Mus avrebbe voluto espandere il suo territorio, controllare anche ciò che era fuori dalla porta (e dalla sua portata) e impadronirsene, ma non poteva.
Gli animali usano l’urina per marcare il territorio: Mus non poteva lasciare il suo odore fuori dalla porta della sua casa e la sua vescica si è ammalata. La sua fantastica padrona, dopo qualche mese, decise di trasferirsi in campagna e Mus divenne un gatto felice. Adesso ha dieci anni e in tutto questo tempo ha più volte dovuto fare i conti con le sue insicurezze: ogni volta che un gatto nuovo o qualche altro pericolo minacciavano di fargli perdere il controllo del suo territorio, la cistite tornava fuori e Mus aveva bisogno di essere aiutato dal suo rimedio omeopatico per trovare il coraggio di affrontare la situazione.
Un’altra storia che mi torna in mente è quella di Chicco e della sua padrona: quando lo vidi aveva già quindici anni ed una massa di notevoli dimensioni sulla colecisti, apparsa negli ultimi mesi. Già da anni soffriva di colelitiasi e di episodi ricorrenti di vomito con sofferenza epatica. Chicco viveva da due anni solo con la padrona perché il padrone, dopo anni di litigi domestici, se n’era andato di casa; la separazione era costata alla padrona di Chicco un lungo periodo di depressione ed un carcinoma mammario.
Chicco era un cane litigioso e irascibile: non era mai andato d’accordo con gli altri cani, soprattutto maschi al punto che, da quando la padrona, alcuni anni prima, aveva portato a casa un    cucciolone di Pastore Tedesco (che era rimasto solo una notte), Chicco odiava tutti i pastori tedeschi e tutti i cani neri e ringhiava persino a Rex in televisione. La padrona dichiarava che se non fosse stato suo sarebbe stato un cane che mordeva: quando ci aveva provato lei aveva reagito e lui aveva capito.
Da altri particolari traspariva un’indole dominante che aveva trovato però un freno nelle reazioni decise della padrona. “Mi somiglia un po’”, diceva lei “non vuole che gli rompano l’anima”. Dolce e delicatissimo coi bambini poco invadenti, evitava invece quelli irruenti. Quando i proprietari litigavano, se ne andava in un’altra stanza e stava sempre attento a capire cosa succedeva; era sempre molto attento. Dopo la partenza del padrone, era diventato molto protettivo con la padrona: era sempre a leccarla e ad asciugarle le lacrime. Al suo ritorno dopo la malattia, lui non la mollava un attimo, era sempre fra i piedi, fino a farla cadere e stava ancora più attento a tutto quello che faceva lei.
Qualche mese prima che io lo vedessi aveva avuto una diarrea persistente in concomitanza della diarrea della padrona: per questioni legate alla vendita della casa, lei aveva dovuto rivedere l’ex marito ed era stata di nuovo male. Chicco invece lo aveva snobbato, era infastidito dall’odore del suo sigaro. Il suo fegato, con i problemi alle vie biliari, fino alla massa comparsa sulla colecisti, ci racconta una storia di rabbia: da sempre diciamo “verde di rabbia”, come verde è il colore della bile, e parliamo di “travaso di bile” dopo  una violenta arrabbiatura; la “bile gialla” è l’umore in eccesso nei pazienti collerici; secondo il metodo Hamer le affezioni delle vie biliari sono da ricondurre a conflitti di “rabbia nel territorio”, ossia all’interno del nucleo familiare: Chicco era di suo un cane irascibile, la rabbia faceva parte di lui; in più aveva vissuto una situazione familiare fatta di continui litigi e viveva accanto ad una padrona ancora arrabbiatissima con l’ex marito.
Certamente Chicco ha sperimentato e manifestato anche una forte preoccupazione per lei, a cui è legatissimo e che ha cercato in ogni modo di aiutare e sostenere; e chissà se abbia anche provato delusione o dolore quando il padrone è scomparso dalle loro vite; certamente, però, di tutte le emozioni che ha vissuto a fianco della sua   padrona è la rabbia quella che ha lasciato il segno: la vediamo anche nella diarrea che ha condiviso con lei quando l’ex marito è ricomparso (sensazione di aver subito una “stronzata” difficile da far “passare”).
Anche il corpo enorme di Silvestro racconta una storia: Silvestro è un gatto obeso; non sto parlando di un gatto cicciottello, e neanche di un gatto decisamente grasso; Silvestro è difficile da immaginare: pesa diciassette chili! Per ora riesce ancora a camminare per casa ma non riesce più a issare la sua mole enorme sul letto.
Vive in casa con la signora che lo ha tolto dalla strada. Ci sono molti gatti che per strada ci vivono benissimo, e anche molti gatti che vorrebbero lasciare i loro appartamenti per tornarci. Silvestro no, lui odia la strada. Nato in campagna, aveva vissuto fra i campi per alcuni mesi insieme alla madre; quando però la sua prima padrona si trasferì in città,non li volle in casa e li chiuse fuori: terrorizzato, Silvestro si aggrappava alla porta per rientrare ma nulla, non ce lo volevano. Dopo poco la madre morì, investita da un’auto e Silvestro rimase solo. Una signora, impietosita, gli procurò un piccolo riparo e lui passava le giornate rintanato lì dentro, finché lei riuscì a portarselo vicino a casa e ad ospitarlo in uno scantinato: erano solo due metri di spazio, ma c’erano quattro mura che lo proteggevano: per Silvestro era un sogno!
Di giorno stava fuori libero e di notte dormiva lì dentro, con altri due gatti. Inizialmente sembrava un gatto felice ed era perfino socievole. Poi, col tempo, le sue paure crebbero sempre più, tanto che si sentiva tranquillo solo nello scantinato. Fosse stato per lui, sarebbe rimasto sempre lì dentro, anche da solo e al buio, pur di non dover più affrontare il mondo esterno. Però non si poteva, di giorno bisognava uscire e allora il sogno diventava un incubo. Silvestro passava le giornate rintanato sotto un cespuglio appartato, aspettando l’ora di rientrare; quando la signora arrivava, lui si avviava verso lo scantinato, ma anche quel breve tratto allo scoperto era un dramma per lui: tutto lo spaventava e certe volte rimaneva lì in mezzo, paralizzato dalla paura, e dovevano portarlo dentro di peso. Poi, per fortuna, l’adozione, l’appartamento, la sicurezza. Anche qui però teme ogni rumore che proviene dall’esterno e esce in terrazza solo se la padrona lo accompagna.
E intanto ingrassa. Mangia poco ma ingrassa, ingrassa sempre di più. Gli esami del sangue hanno rivelato, sorprendentemente, che la sua tiroide funziona perfettamente. A parte i trigliceridi alti, l’unica alterazione è una ipoglicemia piuttosto marcata. Nient’altro. Silvestro è un gatto mite, anche se non molto espansivo; non è depresso, è uno che chiede quello che gli serve; a modo suo richiede molto l’interazione con la padrona: ad esempio, non usa la lettiera quando è da solo, aspetta che lei torni: non lo fa per paura, è piuttosto un rituale che crea un momento di comunicazione fra loro; quando lei lo accarezza, dopo poco lui comincia a mordicchiarla appassionatamente: è il suo modo per partecipare attivamente a questo scambio affettivo.
In altre parole, Silvestro, pur non essendo particolarmente dotato di capacità comunicative, fa del suo meglio per interagire con la sua padrona. Come capire quindi il tormento che si cela nel suo corpo enorme? Il pancreas è stato messo in relazione con la percezione del proprio valore e con la gioia di vivere e l’ipoglicemia, in particolare, con la tristezza e con l’amarezza per l’ingiustizia della vita. Si dice poi che l’obesità sia il mezzo per non correre il rischio di passare inosservati: io non posso sapere se il puzzle è completo, se i dettagli sono al loro posto ma il Silvestro che vedo se chiudo gli occhi è un gattino terrorizzato davanti ad una porta sempre chiusa perché nessuno si accorgeva di lui e della sua paura. Ora è grosso, sempre più grosso, perché non riesce a credere di avere trovato accoglienza per sempre: lui rimarrà sempre a urlare il suo terrore davanti a quella porta chiusa.
Queste ed altre immagini mi passano davanti agli occhi mentre Oskar viene traballando verso di me.
Un fremito, un momento di fastidio gli fa vibrare il labbro deforme. La sua storia ci parla di libertà: nei primi anni della sua vita si allontanava spessissimo da casa, all’inizio con Max, il cane anziano, poi da solo: andava a cercare femmine in estro e a fare strage nei pollai vicini e a volte mancava da casa per giorni. Era un cane felice. Gli piaceva viaggiare, adorava anche girare in auto, anche per andare dal veterinario. Era un viaggiatore nato. Però, non poteva durare: il vicinato inferocito ringhiava minaccioso e ai padroni di Oskar non rimase che recintare il giardino. Oskar,  era un osso duro: riusciva ugualmente a rompere la recinzione con i denti e se lo mettevano a catena, si lanciava a tutta velocità fino a sentire lo strattone del collare.
In quel periodo arrivò Berta, una magnifica cucciola di maremmano, che stava libera, mentre lui, in attesa di completare la recinzione, stava a catena. I suoi denti non potevano più aiutarlo a fuggire, la catena era troppo anche per lui. Infine fu completata la recinzione, che venne elettrificata, e Oskar fu liberato: più volte si lanciò coi denti sul recinto elettrico e fu costretto a desistere, finché si dovette rassegnare: la libertà era perduta per sempre. Nel frattempo Berta cresceva e la sua superiorità fisica maturava. Fu in quel periodo che comparve il primo segno della sua malattia: una piccola protuberanza sotto l’occhio destro, che nel giro di qualche tempo divenne una fistola.
Ci volle molto tempo perché fosse chiara la diagnosi: melanoma maligno, inoperabile. Il segno, ai miei occhi, della frustrazione di Oskar, della sua rinuncia alla libertà: una ferita perennemente aperta su quel muso che aveva addentato e vinto il ferro delle recinzioni e che a un certo punto era stato sconfitto. Sono passati quasi sei anni, ormai, da quella prima ferita: Oskar li ha passati nel grande giardino, con Berta e con i suoi padroni, che adora. Gioie più casalinghe hanno dato senso alle sue giornate e con l’età il suo animo girovago e le sue membra irrigidite si sono dati pace. La malattia ha devastato la sua faccia, ma lui è ancora qui. Ora fa freddo, l’inverno non è lontano, e la sua storia sta per concludersi: Oskar ha visto molte primavere, non so se ne vedrà un’altra.

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