Regia di David Lynch, USA- Francia 1999

Quando mi è stato chiesto di presentare un film sul tema “Malattia oncologica, prevenzione e cura”, il mio pensiero è andato immediatamente ad “Una storia vera” di D. Lynch. Una storia vera
No, non compare nessuna malattia oncologica, tuttavia nessun altro film mi sembrava più adeguato, un film sulla vita…
Emergono le prime immagini: un infinito cielo stellato e una musica che è nostalgia…
Poi, dall’alto, la visione della terra, i solchi, i segni lasciati sulla terra dall’opera dell’uomo e una strada tracciata da un trattore che va, che apre verso un punto infinito, verso l’ “oltre”. Ed è respiro. Ampiezza. (Ri-congiunzione tra cielo e terra.). La cinepresa restringe il campo e inquadra un paese rurale, poi una casa. Una voce, una persona, il silenzio. Poi un tonfo… Si entra dentro la porta di casa. L’uomo è a terra. E’ caduto e non riesce ad alzarsi.
Rifiuto, spavento, disorientamento negli occhi, di fronte alla struttura medica che sancisce la condizione di malato. Poi la diagnosi: un grave problema alle anche che rende necessaria un’operazione, un deambulatore o almeno l’uso di due bastoni per poter continuare a muoversi; problemi di vista dovuti a diabete; un principio di enfisema polmonare; problemi di circolazione. Il preoccupante quadro clinico prevede una serie di interventi. Ma a quali condizioni? E quali le conseguenze in assenza di azioni?
Ecco: la morte è lì, diventa prossima. Compagna di viaggio.
Alla figlia  di Alvin  piace costruire case per uccelli. Per creature che volano…o sono volate via.
Di fronte alla finestra, lo spettacolo del temporale che bagna la terra, poi, come un fulmine a ciel sereno, arriva la notizia: il fratello Lyle, che Alvin non sente e non vede da dieci anni a causa di un litigio, “in cui si sono dette parole imperdonabili”, è gravemente ammalato, ha avuto un infarto.
La figlia vede bambini nel giardino di notte, i figli che ha perduto. Alvin annuncia che “deve” vedere Lyle. Non vuole “perderlo” definitivamente; prima che sia troppo tardi bisogna mettersi in cammino.
La perdita delle proprie capacità fisiche, senza ritorno, senza possibilità di guarigione, che inchioda l’individuo ad una realtà senza sogni, illusioni, mette in moto la persona.
 “Una storia  vera”, appunto. Una presa di coscienza della realtà. Un viaggio che sembra un paradosso, che ha come compagna la morte ma che diventa un cammino lento nel ri-trovamento della vita, quella vera.
Così comincia il film che narra la vera storia di Alvin Straight (titolo originale “The Straigth Story”), un agricoltore di Laurens, Iowa, che nel 1994, a 73 anni passati, in precarie condizioni di salute, si mise in testa di raggiungere il fratello infartuato a Mt. Zion, Wisconsin, a bordo di un minitrattore, un tagliaerba J. Deer. Quasi 700 kilometri ad una velocità di 7 km/h.
Un viaggio di ricongiunzione, la cui lentezza lo tiene ai margini della strada; da lì, insieme “dentro”e fuori, Alvin può guardare attivamente a quello che lungo il cammino accade. La sua vita - come ogni vita - è passata tutta nella veloce, fulminea inconsapevolezza di dolori che si perdono in dolori, e di gioie che si perdono in gioie. Degli uni e delle altre ci si rende conto, miglio dopo miglio, collina dopo collina. Ora dunque, per la prima volta, il protagonista conquista un “punto di vista” consapevole.
Un esserci realmente, nella vita. Con i piedi per terra, ma con lo sguardo verso il cielo: “Voglio arrivare a sedermi fianco a fianco con mio fratello - dice - e poi guardar su in alto, verso le stelle, come facevamo tanto tempo fa».
La meta, così, non gli sta davanti, ma alle spalle. Un cambio di marcia, dunque; un cammino lento per riappropriarsi di se stessi, per guadagnare un terreno di vita che, nella fretta di vivere e nel pieno delle passioni, è andato perduto.
E’ un cammino di cambiamento. Capire, comprendere che cosa si è trasformato,                 
ri-vedere la propria vita, il proprio passato, come fa Alvin che sente la necessità di riconciliarsi, di risolvere un conflitto tanto antico quanto stupido. Nodi esistenziali irrisolti che si concretano, prendono forma ed invadono la nostra psiche, il nostro corpo, la nostra vita. Noduli, metastasi che si espandono, provocando sofferenza infinita. Dall’anima al corpo e viceversa. Tutti noi siamo malati. Malati “terminali”, poiché la nostra vita è a termine, ma insieme ad Alvin possiamo trovare un nuovo modo di percorrere il tempo/spazio di quel che ci resta da vivere e scoprirne il senso. Possiamo attraversare l’America per ritrovare la parte perduta di noi…
Quello spazio che ci separa dal fratello, da colui che “meglio di chiunque altro ci conosce”. Così Alvin, presa la decisione, in risposta ad una domanda implicita: - Che cosa mi sta veramente a cuore?- inizia la progettazione del suo viaggio, dei mezzi, strumenti, risorse che occorrono per  affrontarlo, per fronteggiare le difficoltà e le limitazioni imposte dalla condizione. Con l’audacia di lasciare il conosciuto, il familiare, i legami che ci danno senso e identità per avventurarsi, con i mezzi a disposizione, su strade nuove.
“E’ da molto che sei in viaggio? Praticamente da tutta una vita”- risponde alla ragazza che, incinta, è scappata di casa…
A lei racconta la storia della figlia, che piange ogni giorno per i figli che le hanno tolto. E ricorda il gioco/metafora del rametto di legno che facilmente si spezza, mentre un mazzetto di legni non si spezza, come la famiglia. Un suggerimento alla ragazza per indurla a tornare a casa, a riconsiderare questa opportunità. Così continua il viaggio: costellato da una serie di incontri, visioni, riflessioni. E la riconciliazione con il fratello diventa metafora dell’umanità.
C’è silenzio la notte, sotto il cielo stellato… un profondo silenzio, che apre all’ascolto. E’ necessario costruirsi un’arca di silenzio per incontrare se stessi. E l’altro. Per aprirsi alla vita…. (Dice Fellini: “Io credo che se ci fosse un po’ di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire…”)
Alvin sa di non avere scelta, di non avere spazi di libertà rispetto al suo proprio corpo, gli tocca subirlo. Tuttavia, proprio dentro questa consapevolezza, intuisce una via d'uscita insospettata. Deve andare fin dal fratello Lyle: lo deve per ritrovare insieme con lui quel tale sguardo verso le stelle, ma anche e soprattutto per opporre concretamente al niente estremo dell'angoscia il tutto d'un proprio fare. “Voglio andare fino in fondo a modo mio”.
Il suo viaggio ha valore in se stesso, in ogni suo momento, non solo in vista della conclusione.                                           
Il come ha un'importanza almeno pari al verso dove. Ecco perché è così importante proseguire il viaggio così   come è cominciato.
Non esistono risposte che diano indicazioni certe e dunque rassicuranti poiché ogni caso ci parla di stati d’animo, livelli differenti di sofferenza fisica ed approcci diversi a rapportarsi con la malattia. Quello che, però, la lettura di questo film ci indica è la necessità di porsi accanto a chi attraversa questi sentimenti, in ascolto, nella disponibilità ad offrire sostegno in un cammino interiore che muova nella direzione di una maggiore consapevolezza. Un cammino che allarghi gli orizzonti di una vita che sembra destinata a “chiudersi”.

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