La ricerca di un senso nella vita è una strana ricerca. Ha segnato i miei anni fino ad oggi e ha dato un’impronta forte alla dimensione educativa che ho condiviso con i miei tre figli.
Ma è bene chiedersi prima di tutto cosa intendiamo con quella espressione: “senso della vita”. Credo che tutti noi ci imbattiamo, magari a partire santidall’adolescenza, in questa domanda, qualcuno se la porta dietro per il resto dell’esistenza.
Per molti anni ho declinato quell’espressione soprattutto al negativo: che cosa non ha senso. Non aveva senso costruire una vita frammentata tra lavoro, divertimento e famiglia, non aveva senso appartenere a un gruppo religioso che predica quello che non vive, non aveva senso un impegno politico che si perdeva nei labirinti degli infiniti giochi di potere, non aveva senso lavorare per produrre qualcosa di inutile, brutto o inquinante, non aveva senso vivere una dimensione intellettuale aliena dalla vita concreta.
Non ho mai conosciuto la disperazione della mancanza di senso, ma ho negato con tutte le mie forze quello che non aveva senso ai miei occhi, cercando qualcosa che non scivolasse via dalle mani appena toccato, che alla prova della logica e della vita restasse saldo, intero, una base su cui costruire.
“Ha senso” implica ragionevolezza, razionalità, equilibrio, saggezza, è quello che non ha divisioni in sé e non produce conflitto intorno a sé. Questo è il significato che ho dato a quella domanda. Produrre qualcosa che porta un giovamento immediato all’uomo e che sarà contrario a una salute futura, magari di generazioni successive, non è saggio. Lavorare per vivere e realizzarsi e nel farlo perdere gli spazi interiori essenziali all’armonia e all’equilibrio è contraddittorio. Dichiarare amore a una persona e poi costruire una vita quotidiana di incomprensioni è assurdo.
E’ un elenco che potrebbe facilmente diventare lunghissimo perché il modo di vivere che abbiamo è frammentario: si dichiara di voler andare in una direzione ma ci si dirige in quella opposta, sia nella vita privata che in quella sociale.
E’ chiaro che si tratta di una ricerca senza fine, che se c’è qualcosa che non conosce contraddizione è necessariamente in costante relazione dinamica con un tutto ampiamente impregnato di conflitto.
Negli anni della mia giovinezza queste considerazioni sono state un mare molto mosso, fatto di viaggi, scelte confuse ma vissute intensamente, dialoghi accalorati; non si trattava di speculazioni meramente filosofiche ma di scelte di vita molto concrete. Quelle riflessioni hanno trovato una forma e un fondamento nel lavoro di J.Krishnamurti e, prima ancora, nell’incontro con la meditazione.
Krishnamurti parla delle cose della vita collegandole in un insieme logico che ai miei occhi non ha contraddizioni, spesso usando affermazioni che rasentano l’ovvietà. E sostiene che vivere in modo frammentato è all’origine dell’esperienza del dolore nelle sue tante forme. Se chi vive nella stessa casa è diviso l’uno dall’altro prima o poi nascerà un conflitto; se gli interessi personali si sostituiscono al bene comune la società vivrà nella corruzione; se c’è conflitto interiore tra un desiderio e l’altro finirò nella confusione.
Quando con mia moglie demmo inizio alla nostra storia famigliare la necessità di mettere in pratica tutto questo e l’interpretazione che ne davamo ci portò a vivere, alla fine degli anni ottanta, sulle montagne dell’Umbria, in un luogo alquanto selvaggio, creando una piccola azienda biologica e, successivamente, un centro per ritiri che prese il nome di Casa della Pace.
L’educazione dei nostri figli fu un banco di prova esistenziale per i tanti suggerimenti che avevamo raccolto attraverso la nostra ricerca. La nostra famiglia si era orientata verso uno stile di vita aperto, con molti ospiti provenienti da svariati paesi, mentre il nostro lavoro nell’agricoltura biologica ci rendeva partecipi a un movimento di persone attive in un rinnovamento sociale e culturale. Non appartenevamo a nessun gruppo religioso.
Tendevamo con onestà, radicalità e, forse, ingenuità a ridurre la distanza tra quello che vedevamo come etico e la vita quotidiana, il lavoro, la dimensione famigliare.
In tale contesto, gli anni che i bambini passarono nella scuola elementare del paese furono, anche per questo motivo, molto difficili. I bambini si ritrovarono schiacciati tra una cultura famigliare, dove le differenze di genere, razza, cultura, religione, erano viste come dettagli secondari e normali facenti parte della ricchezza delle relazioni, e una cultura fortemente radicata in tradizioni contadine, dove invece le differenze, anche solo alimentari, erano evidenziate e formavano la base per giudizi perentori trasmessi tra coetanei nelle forme dirette e crude che sono proprie a quell’età.
Mentre noi adulti potevamo abbastanza facilmente costruire un nostro mondo di relazioni e valori, lo stesso non era per loro, che si dovevano confrontare con i loro pari in un ambiente non protetto e spesso privo di mediatori.
Oltre a questo aspetto, più peculiare della nostra condizione, c’era il modo di insegnare proprio dell’istituzione scolastica, ovvero l’applicazione di metodi ritenuti idonei a imporre l’apprendimento, con premi, competizione e castighi quando necessario, magari in forma di urli. Questa descrizione suonerà forse anacronistica, ed è probabile che la scuola frequentata dai miei figli lo fosse (scegliere un’altra scuola elementare era quasi impossibile, avrebbe comportato per noi genitori due ore di guida ogni giorno), ma se ci si ferma a riflettere su come si tenta di ottenere l’apprendimento nell’attuale sistema scolastico credo si possa vedere con facilità che il bambino è considerato un essere umano da formare più che da scoprire.
Mentre si ripete senza stanchezza la formula “dobbiamo produrre di più” nel campo economico, sulla scuola pesa la responsabilità di creare una generazione di tecnici e dirigenti capace di far fronte alle sfide del mercato globale. L’umanità, lo spirito, la comprensione profonda, sono aspetti fondanti da cercare nella libera e gioiosa scoperta dei bambini e delle bambine, ma sono spesso sentiti come una divagazione inutile quando si ha un obiettivo finale chiaramente pragmatico. Gioco e momenti liberi possono essere usati come funzionali all’apprendere ma sempre in vista di un obiettivo finale.
C’è una questione fondamentale che emerge qui: se lo sviluppo dell’essere umano debba dipendere del tutto dall’esperienza delle generazioni precedenti, o se il bambino abbia in sé i germogli della bellezza, della consapevolezza, dell’amore, quelle qualità, insomma, tipicamente umane e che debba, sì, essere istruito, ma proteggendo la sua libertà e coltivando quei germogli delicati ma essenziali non solo per lui, ma per l’equilibrio della vita futura.
Gli uomini hanno prodotto una situazione ambientale e sociale fortemente squilibrata e segnata da ingiustizie atroci non a causa di mancanza di conoscenza, ma per mancanza di saggezza. La saggezza non è il risultato dell’esperienza (se così fosse l’umanità sarebbe ormai avviata verso il bene) ma, possiamo supporre, è in relazione ad una sensibilità, una consapevolezza e un’attenzione verso di sé e gli altri ben equilibrate e sviluppate.
Da queste considerazioni sono giunto alla conclusione che i bambini dovrebbero essere protetti attentamente nei primi dieci anni e non essere esposti a condizionamenti troppo forti. Non sappiamo, nei fatti, come potrebbe svilupparsi una mente libera dalla competizione e dallo sforzo: in genere si suppone sarebbe una mente inerte e pigra, ma si sottovaluta l’innata tendenza dei bambini a imparare, l’indomabile curiosità che li caratterizza, quando vengono offerti i giusti stimoli e fino a che non sono forzati a concentrare l’attenzione in una direzione predefinita da altri, sviluppando spesso un’insofferenza verso la scuola e lo studio oppure, cosa forse peggiore, una dedizione allo studio finalizzata al successo. Raramente si trova un vero amore per l’imparare come esperienza vitale.
Finita la scuola dell’obbligo fu finalmente possibile pensare a un cambiamento, rappresentato per due dei miei tre ragazzi dalla scuola residenziale di Brockwood Park, in Inghilterra. Questa scuola era stata fondata da J.Krishnmurti nel 1969, le sue intenzioni erano di creare un luogo dedicato a un’educazione olistica.
Brockwood è stata, per le mie ragazze, una pietra miliare, l’aprirsi a una dimensione internazionale e fondata sul dialogo, dove, effettivamente, la parola “libertà” si fonde con la parola “responsabilità” sia per i ragazzi che per gli insegnanti. Ritengo che il periodo che hanno passato in quella scuola le abbia aiutate a capire se stesse come forse non sarebbe stato possibile in nessun altro posto. L’ambiente di Brockwood è a un tempo protetto ma aperto a moltissimi stimoli che vengono offerti dai visitatori che spesso sono portatori di visioni ed esperienze fuori del comune.
Questo non vuol dire che non ci siano state difficoltà. Le difficoltà pratiche sono state il costo della scuola, che ha impedito di frequentare quanto avremmo voluto; la distanza, che ha creato una separazione forzata con la famiglia anche quando sarebbe stato bene un contatto ravvicinato. Il passaggio da un sistema scolastico basato sull’autorità a un sistema che privilegia la relazione e il dialogo può non essere facile e in qualche modo ritengo abbia inciso anche sull’esperienza delle mie figlie, a quattordici anni un ragazzo è già molto formato e può portare con sé paure e modi di relazionarsi che non corrispondono a quello che è richiesto dalla vita comunitaria di Brockwood.
Vedo queste esperienze fatte nel mondo dell’educazione come un grande esperimento che sta avvenendo in varie parti del pianeta. Mai prima d’ora un tale esperimento era stato tentato su scala così vasta, l’umanità si sta interrogando, come mai ha fatto, sul suo futuro e senza dubbio l’educazione è una parte centrale di questa indagine. Ci si chiede se un cambiamento possa scaturire, se questo richieda una mente radicalmente diversa da quella che ha portato l’umanità a questo punto e quale sia la giusta educazione per facilitare il venire in essere di una mente siffatta.


J. Krishnamurti, Education and significance of life
“La persona ignorante non è chi non ha studiato, ma chi non conosce se stesso, e l’uomo istruito è sciocco quando si affida ai libri, alla conoscenza e all’autorità cercando di capire.
La comprensione viene solo dalla conoscenza di sé, cioè dalla consapevolezza del proprio intero processo psicologico. Quindi l’educazione, in realtà, è la comprensione di se stessi, poiché in  ognuno di noi è racchiusa la totalità dell’esistenza.
Quello che adesso chiamiamo educazione consiste nell’accumulare informazioni e conoscenze da libri. Questa educazione offre una sottile via di fuga da se stessi e, come tutte le fughe, crea inevitabilmente infelicità. Il conflitto e la confusione sono il risultato di una relazione sbagliata con la gente, le cose e le idee. Finché non comprenderemo e cambieremo quella relazione, il solo imparare, acquisire dati e capacità, può solo portarci ad accrescere il caos e la distruzione.”

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